Traduzione:     


NATURA MORTA
Aforismi e frammenti da una "Cosmogonia" ritrovata
con un "Piccolo inventario delle cose notevoli"

(Nino Aragno, 2012, 3a ed.)
ISBN 978-88-8419-564-7
www.ninoaragnoeditore.it


Per ogni dove distende la natura
la sua immensa rete
e alle sue maglie nessuno può sfuggire.
Produce, fa crescere, distrugge:
è la legge eterna e necessaria
che la regge. Ma l'uomo,
sottoposto a forze sconosciute
 che nel dominarlo e trasformarlo
lo fanno vivere e morire,
ne sente con potenza agire
su di sé gli effetti
senza rendersi conto
che niente c’è di separato mai da niente
e tutte quante le cose al mondo
stanno dentro il flusso dell’unica corrente.

Il libro dell'intima correlazione

 

 

NATURA MORTA

 

Vita

Dal buio largo
del tempo dilagato
prima dell’uomo
è esplosa
in una varietà di forme
ordini e specie,
e di lì in poi
ha continuato senza posa
per le sue molte facce
della stessa via
e nel variare degli aspetti
in mezzo al ritornare
di eventi catastrofici
violenti e distruttivi
calamità, contagi, epidemie,
senza contare
infine l’eccezione
di stragi e ammazzerie…
il semplice conto quotidiano
ci lascia più interdetti
nell’atto di capire
di quanta morte
necessita la vita
per fiorire.

 

Terra

Terra che ingoia
tutto quanto:
città nazioni imperi.

Terra stipata
di cadaveri
che ha divorato.

Terra che sputa fuori
erutta spinge
rugosa e tormentata.

Terra sfaldata
che annega
e che sommerge.

Terra che del
disordine e degrado
fa la sua forza.

Terra in travaglio
costruttivo e distruttivo
senza fine.

 

 

PRELIMINARI

 

Quale linguaggio per cercare

La finzione soltanto,
l’immaginazione
– tra gli altri a ribadirlo
anche un principio
delle idee fondanti,
fenomenologia,
come del resto prima
già per intero
l’antichità dei saggi
nomina e discerne –
è la vivida sorgente
da cui la conoscenza
delle poche verità
del grande vero
che sono quelle eterne
dalla vena creativa
trae alimento
affidandosi alla via
allusivo-evocativa
del simbolo
e dell’allegoria.

 

Il reticolo del nome

Emerge su dal fondo
esonda la parola
a rompere il silenzio
e pronunciare al mondo
ciò che aspetta
ancora nell’assenza,
ciò che fluttua
nell’andare più indistinto
ancora lì senza
la forma né i contorni
e che di colpo cessa
di essere in procinto
e si fa vivo da incolore,
si assume e circoscrive
come contenuto
del suo contenitore
dentro il reticolo del nome.

 

Nominare

Il nominare chiama
e, sì, chiamando
ecco che avvicina
invita ciò che chiama
a farsi essenza
convocandolo a sé
nella presenza.
È la ragione
che si fa linguaggio
volto a spiegare
perfino il sentimento
e l’emozione,
musica interiore
che su da sotto sale
e consegnandosi
all’urto materiale
delle precipitose
ondivaghe onde sonore
parla mentre si scontra,
per domarla,
con la resistenza delle cose.

 

Il sogno di non contraddizione

Sogna la ragione
una coerenza del reale
che misurandosi
di volta in volta
con il presunto
effetto del causale
separando nella divisione
annega inconsapevole
dentro l’illusione
ogni verità,
nell’ignoranza
che la molla di tutto
è invece la contraddizione
dentro l’unità.

 

Necessità del paradosso

E per dar conto
di una realtà molteplice
ibrida e contraddittoria
stratificata nell’abbraccio
di bene e male
di più e di meno
fatta di vuoto
che si fa pieno,
e che cuce ma per strappi
e divarica le parti unendo,
che riproduce la vita
sempre e solo morendo…
la logica pura
concettuale
serve a poco o a niente
per spiegare,
se mai il gesto simulato
il simbolo fluttuante
il paradosso ambivalente
può significare.

 

Categorie universali?

Ecco che la mente
fa ricorso all’ordine
per ricondurre
al dato universale
ogni dettaglio
e singolo particolare
nello sforzo di organizzare
appunto negli insiemi
di ogni idea categoriale
il vasto ibrido mare
dell’indifferenziato
singolare-plurale.

 

Lo sguardo umano

Lo sguardo umano
per sua natura
innaturale,
per quanto corra
rasoterra,
dal qui e adesso
si fa subito distante
trabocca e spande
rimbalza col riflesso
della luce
niente lo ferma
o chiude col suo schermo
né il buio pesto
lo fa spento,
resiste alimentandosi
da quel che nel profondo
emerge, e sente
di essere straniero…
l’altrove, il cielo…
il trascendente.

 

La parola

Ha filamenti lunghi
la parola,
radiche e barbe nere
che pescano
nell’utero del tempo
tra le melme
di quel limo viscerale
che ha dato
soffio e corpo musicale
alle cose sconosciute
richiamandole così
come fuori da se stesse
dentro il ritmo cadenzato
di quel tutto tuttità
che è strabordante
fuoco liquido eruttato
dentro ognuna
singola entità.

 

Verso il cielo

Da essere pensante
ti si presenta all’evidenza
della tua coscienza
tutto il vuoto
che ti separa via
dal resto del mondo
ed è il pensiero
che ti fa estraneo,
è il suo sentiero
a trascinarti verso l’alto
e da quel salto
spiccato verso il cielo
che subito ti afferra
non si ritorna giù
coi piedi a terra.

 

L'ultima stanza

L’ultima stanza
è quella, sì:
del vuoto del silenzio,
del tutto
che è conficcato
dentro al niente
e dell’incontro trascendente
con la totale alterità,
la vera vita assente
e antimateria
che fa da stampo
e impronta
dell’inessente
a ogni essere
pieno e consistente.

 

La voce del silenzio

È dal silenzio
che viene la chiamata,
prima dispersa
affogata nel chiasso
inascoltata:
la voce che grida
non parlando
nel deserto
e dando nome
a ciò che è assente
riplasma in lettere l’essenza
evocata e intanto
risucchiata su
dai lattei confini
del solido niente
riconsegnando subito
contorni forma
e consistenza
all’essere esistente.

 

Contro la rigidità

E, se nel tempo
creò la mente
un ideal tipo
che fosse tutta l’arte,
era menzogna
ed arbitrario
esercitarne
l’ipotetico mandato.
Non muta affatto
ciò che è stato
eppure conta proprio
perché è già mutato…
Punto di vista
elastico
aperto all’impensato.

 

La sete

Solo tra le braccia
della vita che rinasce
si spegne la sete
di risposta al buio del mistero,
consegnati da se stessi
al dolore e al desiderio
di un vuoto mai riempito
davvero per intero,
consumati nel profondo
dalla febbre cruda
di un valore indefinito,
toccato e appena
percepito, mosso
nel suo essere assoluto
voluto e perseguito
con tutta la tensione
del tuffo già spiccato
eppure non compiuto
per ridare intanto fuoco
all’energia vitale
prima che bruciata,
dissolta e via soffiata
incenerita, non stia
in sé rigenerata.

 

Arte come linguaggio?

Arte è linguaggio
che all’oggetto
lega il segno
in un rapporto originale
di ri-conoscimento?
…è il traduttore
del caos che avvolge
le cose della vita
(gli ossi, la polpa e il soffio
il vuoto e il pieno
la forma e il calco)
l’intera compagine del mondo.
Niente di statico
o di decorativo
o di nostalgico però…
l’orlo che sale
impregna e gonfia,
il brodo germinale.

 

Attività teoretica e pratica?

Ma si capì
che non valeva
la distinzione tra le forme:
soffio e corpo solido
materia e non-materia
(ciò che decade
mentre fugge via)
principio intellettivo
e spinta del profondo:
frutto – tutto – di energia.
Concreto e astratto
nascono insieme
come sogno e realtà
perdita e conquista
paura e coraggio
buio nero e vista…
per l’uomo simbolista.

 

Ipotesi di lavoro

Imitazione:
per somiglianze
attrarre l’ignoto-ancora,
dare pronuncia
all’invisibile
(il nome della cosa
immaginato)

Espressione:
per segni manifesti
sul limitare della notte
dall’indistinto
balzare fuori
(che tutto emerga su
da fango e sangue)

Rappresentazione:
al liquido pensiero
dar solidi confini
in forme organizzate
e partiture – stile –
(la terra grassa e scura
si fa musica sottile)

 

 

INTERROGATIVI

 

 

L'urlo del silenzio

Qual è il colore
che più tace
nell’urlo del silenzio?
La tinta carsica,
il cosmo nucleare:
l’eco, lo stampo
del vuoto colossale
di cui, nell’apparenza
della sua materia
più compatta
la vita come il sogno
in guerra e in pace
a strappi ma compressa
distratta nel suo
essere saldata
per unione nel distacco,
è fatta?
  

 

L'anima del mondo

Per quale mai spiraglio
gola cunicolo pertugio
strappo o taglio
riaccendere il suono
perduto dall’udito,
da quale bordo mai
dell’infinito
riconquistare al gusto
all’occhio al naso al tatto,
nel cono d’ombra
nel retroscena
dentro il fondo,
l’archetipo matrice
l’anima del mondo?

 

L'oltrepista

Tra cubi, piramidi,
cilindri…
grandi volumi
e forme filiformi,
dove innescare
il clic dal buio
perché ne possa
deflagrare
il flash inaspettato
sì, l’annunciazione
della rotta che tira
all’indimenticato,
dell’oltrepista
per quello stato eterno
dentro la vita
disperso e frantumato
dalla vista?

 

La sagoma del mondo

Oltre l’inganno
e l’apparenza,
oltre la finta riconoscibile
sagoma del mondo,
dentro l’astrazione
più concreta
di cose e di figure
che sconcerta
col suo abbaglio,
come togliersi di dosso
la coperta,
come riuscire infine
a ricomporre il taglio? 

 

Le cose

Ma cosa fanno
le cose quando
sfuggono di vista
al controllo che
su di loro esercitiamo?
Gravano su se stesse
in attesa di essere
di nuovo sollevate
o restano contratte
in vigile difesa?
Aspettano per giorni
inchiodate nel silenzio
che torni ad animarle un po’
la nostra presa?
Basta che solo
le pensiamo
e di per sé, chissà,
il pensiero nominandole
fa da tiranno
ad annullare
la loro libertà?

 

La luce

È la luce che
leggera ma puntuta
cucendo la bocca
scuce gli occhi,
così che la lingua
biforcuta
s’intoppa gonfia
e resta muta?
E l’occhio tocca appena
e sfonda,
trascina e impasta
onda su onda
la realtà che fluida
va alla deriva
e in movimento
resta cangiante
che quasi si dissolve?

 

Il vecchio nuovo

Il vecchio si fa nuovo
un’altra volta
nei segni dell’ordito
composto sulla tela?
Luce che fora il buio
senza però stanarlo
con la presa
dal suo stato prediletto
di penombra amata
e previdente
avviandola intanto
sul sentiero?
Vita vivente
distesa nel mistero…

 

La traccia

Da dove nasce,
prima ancora
di ritrovarci nati,
tutto quello che
– senza saperlo –
siamo già stati?
L’oscura traccia
appena lì tracciata,
verso la meta,
da una mano segreta…
il soffio lieve che
nel suo moto breve
sfiorandola di colpo
l’ha animata
tirando il velo su,
ma solo in parte,
senza svelarlo
nel mentre si rivela…

 

La nostalgia del mare

Che sia laggiù
la nostalgia del mare
nella sua essenza
di cosa inconquistata
compresa a stento
tra le sponde,
camaleonte
di velluto e raspa
di celeste e di smeraldo
di blu inchiostro e nero,
la zona misteriosa
e non contaminata
da cui proviene
insieme con la vita
tutta la schiera
di mostri e di fantasmi
dispersa e trascinata
dalle onde?

 

Il presente

Chi è che
il sogno e il desiderio
l’attesa e la speranza
aspettano intrepidi
fantasticando
che venga finalmente
a liberarli
per rendere all’essente
ogni virtù
dell’assoluto coincidente,
la sua sostanza
di unico e di eterno
del presente?

 

 

NATURA MORTA

 

 

 

L'uomo nasce tenero e flessibile
e, quando muore, è duro e irrigidito.
Anche la pianta nasce tenera e flessibile
e muore poi che è secca ed è indurita.
Per questo sono duro e rigido
gli attributi della morte e del suo stato,
tenero e flessibile quelli della vita.
Resiste solo ciò che cede
e ciò che non si piega giace stroncato.

Il libro della via e della virtù

 

 

DEL TEMPO

 

  
1.

Chioma di fiamma
che eternamente mangia
la sua coda, passo
contratto dilungato
duro e rarefatto,
sasso lanciato
freccia che si perde
sopra il tetto.

L’innesco della corsa
rimandato, l’impulso
di una parte che
scivola sull’altra
e il loro scorrere
alto e basso
giorno e notte,
nel guscio in cui
precipita ruotando
aduna e scioglie
sigilla e rompe,
ore su ore.

Sicuri dell’effetto
che non cadrà il muro
tra il cercatore
e il suo desiderato
né tra l’amante e
l’oggetto del suo amore.

 

2.

Tra “sì” e “certo”
che scarto corre?

Tra chiaro e scuro
tra minimo ed enorme

tra mezzo e intero...
L’indistinto e il confuso

contengono l’ordine
dell’intera loro somma

e nell’alveo del mondo,
nel ventre più infuocato

e incandescente, freddo
e caldo non riescono

tra loro a sormontarsi.
La luce e il buio

con equità si sono
divisi la partita.

 

3.

Ciò che si svuota
ed è inesausto

come ciò che dura
perché non è per sé:

l’escludersi da sé
per conservarsi

l’avere oltre di sé
tutto di sé.

L’inaudibile, l’impalpabile
e l’invisibile:

da cui procedono l’udito
il tatto e la vista

ed è nel dare forma
a una negazione

che può attestarsi
la loro consistenza.

La radice eterna del principio
muove dallo zero.

 

 

4.

Non ha misura, il
tempo, è sconfinato

e solo si riflette
il suo tracciato,

in ogni modo
qualunque sia mai stato,

sugli specchi di
ore e di stagioni

come ciò che cambia
mentre dura e ha

in sé la fine e
il suo principio

nel giro in cui si
mette e che ripete.
  

 

5.

La forma senza forma
la pura sua estensione

il segno del tragitto
nel corso del suo moto

la figura senza una figura:
l’anima del vuoto.

L’aspetto è cosa monca
fratturata e tale che,

arrestata nel corso della
sua frattura, resta solo

pura apparenza e,
perdurando, niente dura.

 

6.

In ogni aspetto e effetto
qualunque sia l’ordito
per uno o un altro corso

nulla mai di nuovo eppure
tutto nuovo avviene rispetto
all’infinito tempo già trascorso.

 

 

7.

Un turbine non dura
una mattina

né una pioggia mai
il giorno intero

cammina in tondo
il buio dalla luce

che taglia la natura e poi,
tagliata, la ricuce al fondo...

l’intermittenza è il vero passo
che tiene e usa il mondo.

 

8.

Nel cuore e nelle vene
mescola e impasta

ma non trattiene che
un lembo della parte

sua futura, si disperde
produce molti effetti...

ciò che è piccolo
contiene il grande:

nella figura c’è
l’idea compiuta intera

il minimo raccoglie
l’infinito, l’effimero

l’eterno, e il suo creatore
la creatura.
  

 

9.

Ciò che la troppa
altezza nasconde

un mare senza sponde
la pura luce del giorno

la perduta misura
dell’intero orizzonte

con le onde che si trasmettono
intorno sempre più vicine

quel che muta e dura
uguale senza fine.

 

10.

Ciò che si adatta
ad ogni forma

e a lei si commisura
è il senso dell’eterno

come l’acqua che
si adegua al recipiente

e niente c’è
cui non si piega

a cui non si conforma
sua cucitura dall’interno

il totale pieno senza usura
nucleo, base e perno.
  

 

11.

Estremo limite, in
grandezza, è il vuoto

il conto calcolato
al pelo degli zeri

il numero aumentato
dalla nientità

il filo che si fila
e attinge la cornice

senza mai esaurire
l’immutato scaturire:

il vuoto è la radice
del cielo e della terra.

 

 

12.

Il peso è la matrice,
incontro, del leggero

il moto è la radice
della tranquillità

il mezzo è la cornice
del tutto intero

come il vuoto è
l’utilità vera del vaso

il tempo è il senso
e il ritmo del caso

e il caso è un nome
della necessità.

 

 

DEL NOME

 

1.

I suoi risvolti, i
margini, le tracce...
un richiamarsi a ciò
che gli è contrario.
In prolungata assenza
in sospensione, sola
evidenza del rimando.

Stando all’eco,
l’impronta di una faccia
da un’altra, che
sola sopravanza.
L’intero non ha dove:
dal nome si protende
ciò che non ha nome.

Non conta nel rilievo,
ma nella cavità
di breccia dilatata
nel vano della porta,
nel moto dell’ombra
proiettata senza posa
su dal fondo.

Di non essere
è impastata ogni cosa
e la sostanza del mondo
scivola sul vuoto.

 

2.

Ma non sfugge, il
senza-nome, alla duplicità:

curva il suo splendore
e si riempie della sua

polvere sublime. Perché
il niente è anche

tutto e, questo assurdo,
è il senso della vita.

Il vuoto è l’anima
del pieno:

tra verbo e cifra
tra alto e basso.

 

3.

Di ciò che lascia
o dà, delle sue tappe

e dell’intero corso,
resta la calma

virtù di gravità.
Il peso è la radice

del leggero, l’arresto
il principio del moto,

l’alto prende l’infimo
a suo vero fondamento,

il molle vince il duro,
la linea retta

più si fa lunga e
più si incurva.

La vita, nel suo essere remoto,
nasce dal non-essere.

E il non-essere penetra
dentro l’impenetrabilità.

 

 

4.

Il nome non ancora
pronunciato...

ciò che, nel giro
della mente, ogni volta

si ripete per intero
eppure non è stato

in un innesco continuato
dell’azione rimasta

nell’appiglio dei
suoi stessi uncini:

chi è senza desiderio
ne contempla l’interna perfezione

chi è dentro il desiderio
ne considera i confini

e le due cose insieme
fanno il mistero

più fondo del mistero
e sono la porta

di ogni meraviglia,
l’ingresso dei giardini.

 

 

5.

Senza nome è l’inizio
del cielo e della terra

con il nome è la madre
generosa di ogni cosa

e, chiamandola, le dà
forma nel concreto

e sgrezza senza posa
la materia generata

dal soffio di energia
che scivolando via

fa ogni volta singolare
la totalità indifferenziata.

 

 

6.

L’essere e il
non-essere
si specchiano
a vicenda

e ciò che è
è tale in quanto
ha dato dei
confini al nulla

e dentro il vuoto
non c’è niente
che possa neppure
chiamarsi con il nome.

 

 

 

DEL SAPERE

 

 

 Consèrvati ancorato al dubbio
e insisti a interrogarti sul mistero

 

 

1.

Senza uscire fuori dalla porta
si può sapere il mondo,
senza affacciarsi alla finestra
si conoscono le vie del cielo,
più lontano si va e meno si sa.
Per questo, l’uomo saggio
non cammina eppure arriva
non guarda mai le cose
e ne pronuncia i nomi
non agisce e, intanto, compie.

  

2.

La maniera del cielo
è di ridurre

quello che abbonda
e di aumentare

ciò che più scarseggia:
non perde e non guadagna

sul calcolo totale
ma pareggia.

 

3.

Si forano i muri
per dare accesso

con porte e scale
finestre e balconate

e fare della casa
lo spazio incluso

sgombro per essere
appunto contenuto

e in quella cavità
sta poi il suo uso

e ciò che conta
tutt’altro di riflesso

è che nel vuoto
sta l’utilità

nel pieno e solido
solo il suo possesso.

 

4.

...di chi si pose, a
metà del corso, la

questione e incerto
si rispose che forse

la felicità si trova solo
alla fine delle cose.

 

5.

Guardi ma non vedi
ascolti e non capisci
sfiori senza mai afferrare

confuse insieme
tutte le cose
fanno una cosa sola

forma senza forma
figura che non ha
figura

il mistero che si
manifesta e che perdura
legato stretto

all’evidenza oscura
dell’eterno scaturire
del principio.

 

6.

Ma la natura morta
non è senza vita:

tutto si trasforma
senza cessare di essere

in una rotazione
mai finita

e niente può restare
in uno stesso stato

per il processo
del cammino continuato.

Ognuno nasce
per tornare alle radici

e incontrare lì
il suo destino

che è quello di durare
anche nell’assenza

per la permanenza
del principio.

 

7.

Il mistero è
nelle cose, sì,

solo occultato
dal più evidente.

Per rivelarlo a sé
in stato di patente

occorre alzarlo
al polo manifesto,

nel percettibile cioè
e farlo, lì, visibile

attraverso la realtà.
Perché tutto

è sempre immaginato,
e niente mai si sa.

 

8.

                                                                           Sapere di sapere
                                                                 è il principio della fine.
                                                                     Sapere e non sapere
                                                                              ecco il sublime.

Appare sconcertante
imbroglio o beffa
il colmo del paradossale

ma, proprio quando
non ci sono più le rotte
e non hai vie da ricercare

e non importa affatto
dove tu vada ormai,
allora sì perdendo

senza saperlo
ti sei in realtà salvato
e decidendo appunto

di non andare
hai finalmente trovato
la strada per tornare.

 

 

 

 

 

 

PICCOLO INVENTARIO
DELLE COSE NOTEVOLI

 

 

 

Se la perfezione piena
è come imperfetta,
non si può rovinare.
Se la grande pienezza
è come vuota,
non si può svuotare.
La retta lunga
tienila come curva,
la grande abilità
prendila come inetta,
la grande eloquenza
considerala balbuziente.
Niente conta mai nell'assoluto
e non c'è legge che non
si affidi alla sua elasticità.


Il libro della respirazione

 

 

 

DEL MOTO E DELLA QUIETE

Corrobora il calore
naturale, assale e
asciuga le superfluità,
più agile fa il corpo
e saldi i nervi, allora
grato, sì, ma solo
se leggero e moderato.

Pochi e lenti sempre
i movimenti, tali
da non forzare mai
il ritmo che è usuale,
necessari e sufficienti.
E, corte, tutte le
azioni accelerate.

Perché il moto, appena
spinto in corsa, è
principio di morte:
il suo precipitare
dentro al vuoto,
rompere e spezzare
i termini, le porte.

Ed è la quiete, invece,
il passo della vita:
andante cadenzato
vibrante modulato
di toni e di battute,
in un tracciato
di piccole impennate.

Il moto avvince
il freddo, lo deprime.
La quiete va più
a fondo e tempera
il calore, sa trarne
ogni vigore. La quiete
è la regola del mondo.

Ma non l’inerzia
che consuma, corrompe
le forze come il moto
estingue l’energia,
e svuota di ogni volontà
e rende schiavi, prede
in tutto della gravità.

Lo stato di deriva
e di galleggiamento
in cui il ritmato
e lento scorrere
degli atomi
li rende scivolosi
e più leggeri.

L’andare delle parti
una sull’altra,
il loro sollevarsi
e levitare al movimento.
L’essere è intanto ravvivato
appena con la spinta
in un momento.

 

 

DELL’ACCELERAZIONE

Appena alzato,
il pettine percorra
tante volte
il capo dalla fronte,
indietro, sulla nuca
e, poi, le unghie
grattino le tempie.

Una spazzola di ferro
raspi la barba,
tagliata di frequente
e non rasata mai. Che
è tra i segreti, con
lo strofinamento,
della prontezza d’animo.

Due o tre starnuti
prima di lavarsi.
E due o tre venti in
altrettanti piegamenti.
Sciacqui con acqua
di salvia e rosmarino,
forti brevi e frequenti.

E strofinàti il naso,
orecchie e mento.
Le palme a conca
con l’acqua fredda
contro gli occhi
aperti e chiusi, di
seguito, più volte.

E acqua fredda
gettata sulla fronte
e intorno al collo,
dietro, sulla nuca.
Ma, di mattino, sopra
ai denti niente pasta
e niente spazzolino.

Le frizioni escludono
gli umori e, nello stesso
tempo, aprendo i pori
tirano il sangue
verso il fuori.
Rifanno duro e molle,
spesso e raro.

Che si riscaldi e
prenda il suo colore,
avanti al cibo
e già svuotati il
ventre e la vescica.
E seguiti la quiete, di lì
in poi, senza impedimenti.

L’acqua e il massaggio
lento rimuovono le
parti morte e rinverdiscono
la pelle. Il sangue,
effervescente, conduce
l’ossigeno al cervello e,
poi, da quello in giro.

L’ora e quelle corte
pratiche rendono
volatile il pensiero
più elastica la mente.
Più acuto, l’orecchio
sente il suono e l’occhio
coglie i segni intorno.

Che, poi, andando
dentro al giorno
più lento, a poco
a poco, il corpo si
dispone all’abbandono.
Volge lo sguardo e
abbraccia il suo passato.

Solo accarezza quello
che aveva dominato
dall’alto della vetta.
Più dolce, poi, ma
fiacco e più offuscato.
Senza il distacco
della linea retta.

 

 

DEL SONNO E DELLA VEGLIA

Come dall’orlo
di un burrone, dal
colmo su della salita
pronti a soddisfare
la sete trattenuta,
precipita nel vuoto
sta e dilaga.

Flussi e riflussi
ondate, alla deriva,
in mezzo ai ritagli
di parole, di immagini
slegate, in storie che
sovrappongono figure e
attorcigliano le trame.

E dall’avvolgersi, in
se stessa, della trottola
riemerge a tratti per
spire lente e successive
fino al pluff, al soffio
che risucchia dalle rive
nuovamente ai fatti.

Il sonno è traditore
se si prolunga troppo,
se ricomincia ad inseguire
la sua ombra, a rivoltarsi
a forza, a mordersi la coda.
Rafferma le sostanze
dentro i vasi.

Fa più traversa e spessa
l’aria, riempiendo
parte dei polmoni e
parte lasciandone al ristagno
e grava il cuore
e svuota il capo,
facendolo dolere.

A quell’estremo passo,
prima del salto a
capofitto, della caduta
su reti di vapore,
lasciarsi non si può
slittare dentro,
se corrono i pensieri.

Occorre opporsi un muro
contro cui attestarsi
sicuri del sicuro.
Nell’attimo lasciato e
chiusi a ogni futuro,
disporsi a cogliere
quel filo nella cruna.

Ed è più difficile
se non c’è margine
dal pasto, e il cibo
grava sullo stomaco
spostando il baricentro
verso il basso,
rompendo l’equilibrio.

Se piedi e pancia
non sono già
coperti e non si
è stesi al duro,
se non è posto in mezzo
un giusto schermo
ai raggi della luna.

Se non può entrare
l’aria fresca, se non
tranquillo e scuro
è il luogo, sulle prime.
E se non c’è una piega
gradita per il corpo:
forma del sonno.

Calcolo e misura
di un altro regime
di tensione, nel punto
in cui si pone a
condizione pura e
semplice del moto
lo stato della quiete.

Labirinto incantato
in cui si scioglie
il vincolo più ingrato,
si chiude la ferita.
Soffio vincente:
droga e macchia
d’olio nella mente.

Ma ruba vita
il sonno diurno,
aggrava e fa marcire
la ferita. Specie
quello meridiano,
di più nei giorni
accesi di canicola.

Sollievo sa darne
anche la veglia.
I nervi tesi e
l’attenzione del corpo
a tutte le sue parti,
gli sguardi vòlti
fino nei dintorni.

La mente che si scioglie:
si piega, si distende e
passa per le vene con il
sangue, si raccoglie nel
più piccolo interstizio,
riempie il vuoto
della carne.

 

 

DELL’ARIA

Serena e chiara
aperta a oriente
e non corrotta
da nebbie e da vapori
di stagni e fossi,
e non seccata
da polveri e da fumi.

Pura e temperata
non torbida e infetta
frizzante nel sangue
e nella testa.
E, se è offuscato e
grave il corpo, acqua
fresca e aceto, in casa.

Erbe, semi, fiori
e rami sparsi
nelle stanze: cime
di rovi, foglie
di lattuga, canna
essiccata mischiata
a petali di rose.

Col caldo, scorze di
cedri e di limoni,
menta e mele in giro.
E, quando è freddo,
decotto di salvia
bacche di ginepro
alloro e rosmarino.

Notti odorose di
pino, nell’estate.
E imposte non serrate:
che un filo d’aquilone
soffi l’alchermes
della tazza fuori dal
balcone, all’alba.

Nella stanza piegata
a settentrione.
E, d’inverno, intorno
acqua di melissa
aceto e rosmarino
nella casa alta
e volta a mezzogiorno.

Pelli di volpe
e lane fitte,
lenzuoli di cotone
sciacquati nella cenere
e panni avvolti
in fiori di lavanda
e zafferano.

Tela di lino sotto
alle coperte, canfora
e cera, nelle mezze
stagioni e
fuoco di larice
per intenerire umori
e sciogliere pollini.

Acqua di rose,
nei vasi, e gocce
di laudano,
un pomo sempre
sopra al comodino,
una carruba e
una castagna in tasca.

 

 

DEL PIENO E DEL VUOTO

Il corpo non si vuole
o pieno o vuoto,
perché la vita
consiste appunto
nel margine sottile
che si dispone tra
il niente e la materia.

Nel moto breve
palpitante, nel ritmo
entrata uscita
in una intercapedine
nel passo che ha congiunto
un punto a un altro,
appena, della cavità.

La ritenzione avvelena
e fa il corpo di sasso,
rigidi i tessuti.
L’inanizione impoverisce
genera spasmi incontrollati
il mal caduco, l’ossessione
e la nevrastenia.

Le superfluità del ventre
e dell’urina, ogni
giorno, due volte
almeno, fuori, di regola
o di necessità, mai
meno: la sera, intanto,
e la mattina.

Quando si avverte
pesantezza, occorre
incitare la natura.
Nel luogo circoscritto
rilassati, in balìa
per tutto della fantasia
in mezzo a cose certe.

Correggerla con cura
quando è pigra. La notte,
sul dorso. Passati di
verdura, miele rosato,
per lubrificare.
E, prugne cotte,
per svuotare l’intestino.

Aiuto a vincere
la ritenzione
è il bagno in acqua
tiepida e salina.
Senza il sapone, che
corrompe gli strati di
cui la pelle si compone.

Con l’aggiunta di salvia
cotta dentro il vino.
Ma il bagno prolungato
o in acqua troppo calda
dilata i vasi, dissolve
le virtù e lascia
senza forze, inanimati.

E, per aprire i pori,
le frizioni. Ma solo
dopo aver svuotato
vescica ed intestino.
E che non superino mai
il piacere, venendo
nel fastidio o nel dolore.

Olio canforato e un po’
di sale. Nelle ore
fresche dell’estate e,
massime, d’autunno
e a primavera, dopo
l’equinozio, ad eccitare
la virtù vitale.

La ritenzione del seme
genera visioni
passioni incontrollate,
con la massa che
dentro sale e preme
contro le pareti, e
lascia le forze più sfibrate.

Accarezzate fino a
un punto, avanti, ma
poi non soddisfatte.
Stanchi e delusi.
Dà vita, il coito, ai sensi
se dà soddisfazione, con
i compensi dell’eiaculazione.

Senza, però, una regola
precisa, che non
coincida se non
col desiderio,
la voglia di schizzare
a un tratto fuori del cerchio
in cui si è chiusi e prigionieri.

 

 

DEL BERE E DEL MANGIARE

È nel suo flusso
nel passo dell’intermittenza
in quel formare e rovinare
sorbire e espellere:
lo stato infinitesimale
della contrazione
e della sua apertura.

Col bere si rinnova
il liquido perduto, in
ogni centimetro quadrato
raggiunto e irrorato.
Si ricompone con il mangiare
quanto è stato consumato,
diluito e raffinato.

Il bere sempre in
abbondanza, nei pasti
e fuori, specie di mattina.
Acqua pura, ricca di
minerali e alcalina.
Alla temperatura con cui
sgorga alla sorgente.

Nei cibi, invece,
consuetudine e misura.
Produce guasti e
mali l’intemperanza.
La novità non giova,
come l’abbondanza
o l’astinenza.

Secondo un ordine:
prima i più leggeri
i liquidi sotto ai solidi
e, sempre, in qualche modo
grati e prediletti.
Senza che ci sia, vicina,
l’ombra del sonno.

All’ora giusta, la
mattina, prima che l’aria
si riscaldi e, la sera,
quando l’aria già
è più fresca. Con, in
mezzo, almeno sette
ore di distacco.

Senza tardare, se
viene l’appetito. E
senza aggravio di
discorsi appassionati.
Nel più assoluto stato di
tranquillità, abbandonati
a sogni e fantasie.

Mai pieni del tutto:
che resti un po’
di vuoto, di riserva.
Masticare a lungo
prima di inghiottire,
sempre lentamente
per poca quantità.

Cibi caldi più che
freddi, ma poco brodo di
carne e molto di verdura.
Grossi, d’inverno, e
teneri, l’estate.
La cena più leggera,
sempre, del pranzo.

E il cibo sia doppio
al bere, e il pane
due volte più del cibo.
La varietà è sempre
da fuggire, pestifero
l’incrocio di sapori,
le opposte qualità.

Mai la frutta mescolata
agli altri cibi o
carne e latte assieme.
Pane bene fermentato,
lievemente salato
di semola e cotto
a fuoco moderato.

Le erbe crude: rape,
cicoria, rucola, lattuga,
radicchio, cipollina,
solo in apertura
all’inizio del pasto.
I legumi, invece,
in mezzo agli altri cibi.

A conclusione, una
mela cotogna e un po’
di acqua fresca. Qualche
passo all’ombra e, poi,
seduti in calma per
non più di una mezz’ora
senza assopimenti.

Il vino, di sua specie,
è anche un cibo e come
tale va contato. In
mezzo agli altri cibi
e mai a digiuno
o con la frutta, e
all’uso degli antichi.

Tagliato magari,
per un terzo, d’acqua e
mai freddato in ghiaccio.
Gagliardo, con i cibi
grossi, e debole, con
quelli più leggeri.
In giusta proporzione.

Puro e chiaro,
limpido e brillante.
Di luoghi sassosi
aperti a mezzogiorno.
Né acre né addolcito,
né torbido o velato.
Restauratore delle facoltà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


  Paolo Ruffilli Mail: ruffillipoetry@gmail.com