Traduzioni:


CAMERA OSCURA
(Garzanti, 1992, 3° ed. 1996)
ISBN 88-11-64015-6
www.unilibro.it

CAMERA OSCURA
(1976-1992)

 

 

“Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente, una
                                   delle mille manifestazioni del qualunque; non può affatto
                                   costituire l’oggetto visibile di una scienza; non può fondare
                                   un’oggettività, nel senso positivo del termine; tutt’al più potrebbe
                                   interessare il vostro studium: epoca, vestiti, fotogenia; ma per voi,
                                   in lei, non ci sarebbe nessuna ferita.”
R. Barthes,La camera chiara

 

 

 

Forse, perché
nel pacco delle foto
per convenzione
l’urlo è muto e
sta bloccato il corso
nella sospesa evoluzione,
avanti e indietro.
Tutto è già accaduto
e viene lì accertato
con minimo distacco,
i pregi e i torti
posti sotto vetro.
I vivi sono morti:
colti in assenze
di statuto, nell’atto
di discesa senza porti
ma con le sue partenze
e i suoi arrivi.
Morti vivi.

 

 

Camera oscura

 

“L’elemento storico, nelle cose, non è che
l’espressione della sofferenza passata”
T.W. Adorno, Minima moralia

“Oltre l’amore, oltre l’odio, oltre la morte,
resiste ciò che ci interessa”
F. Nietzsche, Cosi parlò Zarathustra

 

***

l’ombra del volto
l’immagine riflessa
la scia che si succede
l’impronta finita
sotto vetro…
la proiezione di una
vita che la precede
rimanendo indietro

la cifra data
e persa, misteriosa,
di un essere a
cavallo, dentro e
fuori: l’io dominato
da un intero  assoluto
e indifferenziato…
le tracce di un
discorso in sé smarrito
perduto, scivolato
sul pendio del
tempo fulminato

***

 

L’oggetto che si è
offerto all’obiettivo,
premuto e distaccato.
Messo a morte,
eppure lì sospeso
a tempo indefinito
disegnato, per assurdo,
nel suo essere proteso.
L’atto mancato.

 

 

1
(Il charleston di raso
con fiori di paillette
e frange di perline
sulle gambe nude.
Le scarpine décolleté
col nastro.
Una mano sul fianco
e l’altra a reggere
i capelli dietro al collo.
Le labbra strette,
a cuore.
Firmato, sotto, il bordo:
Wanda Dell’Amore.
Il 2  del 7 del ’38.)

 

Soubrette di avanspettacolo
di piccoli teatri
di quart’ordine
attenti più che all’arte
alle sue forme piene
dei vent’anni.

Del resto, soddisfatta
del corpo che è
piaciuto. “Ho dato
e amato tanto,
ma ho anche avuto.”

Di chi è stato
al di là dei torti
e degli inganni pagati
sulla pelle, felice
nei suoi panni e
consumato. Col  rimpianto
che ogni cosa, incontro,
tolga un grammo
limando ogni giorno
scavando, come l’acqua,
il vuoto intorno.

 

 

2
(Vestita già
di nero, lo sguardo
altero, china
piglia per la mano
il bambino che
di fianco, in grembiule
bianco con uno strano
collo a mantellina,
punta il piede e
chiede, con occhio
contrariato, di
essere lasciato.)

 

Fattasi figlia
di suo figlio,
gli pesa in braccio
ora. Lo attorciglia.
Ridiventata piccola
ossuta e smunta,
eppure dilatata
su lui che è stato
il frutto amato
il campo e l’obiettivo
di una vita accanita
e solitaria.

Lei che si è
data a lavorare,
da sé asservita
ai suoi bisogni.
Diventata padrona
e sanguisuga: l’edera
che lo ha recinto
e consumato.

L’impronta segnata
del già stato
nel ritirarsi della vita.
Ruga dopo ruga
ristretta, disseccata,
incartapecorita.

 

 

3
(Nell’abito di organza
traforato, sta
in posa su di un
piccolo divano.
Un braccio è
abbandonato
sul punto di cadere.
Sostiene il mento
con la mano.
Sotto la frangia,
fissa in lontananza
gli occhi neri.)

 

Presto invecchiata
dal  mestiere,
sulla sedia in ombra
nella stanza,
tenendo tutto il giorno
il suo cappello,
cantava piano, senza
più sapere cosa,
lo stesso ritornello
“il falchetto cacciavento
piomba a terra
in un momento.”

Astro, folgore, cometa,
freccia d’argento.
Anche la traccia
luminosa…
è tutto spento.

 

 

4
(A mezzo busto,
in coppia:
lui col cappello
di feltro nero
e una scarpetta doppia
di seta bruna
stretta al collo,
lei un camicione
a strisce da pipistrello
fin sotto al mento.
Uniti, sì, per distrazione.
Guardano, ciascuno
in una direzione.
Si capisce
che tirava vento.)

 

Lei non voleva,
ma mio nonno d’accordo
con la sua famiglia
preparò le carte
e la sposò,
la vigilia di Natale
del diciotto.
Lei faceva sempre,
suo malgrado, quello
che le si chiedeva.

Fu, nella vita,
ciò che non voleva:
serva e moglie
tradita. Sopportò
che il marito
avesse due case
e che le mantenesse
con il suo lavoro.

Non ebbe nulla o
poco di quanto
più sognava.
E pure quel decoro
che sperava
le restò impedito.

Sempre e ovunque
andando, con il dito
sulle mappe,
a caccia del tesoro.
Nonostante la parte
che, comunque, manca
al sogno di infinito.

 

 

*
I piccoli pezzi
di carta, smossi
dal cono spento,
prendono contorno
ridanno tono e mete
chiamano nessi
tra di loro
assumono il colore
del pensiero
si fanno luoghi
e tempi sempre più
distinti, in cui
ritrovano spessore
le figure, spandono
odore  le virtù
segrete, le atmosfere,
le essenze di un
silenzio succulento
rete scorta magazzino
di immagini e sapori.

 

 

5
(In fila sullo
stretto pontile
dell’imbarco:
la bambina con i segni
della maglia, sua
madre con il busto eretto,
il padre in cima
a tutti, nella
tavola inclinata
sul mare che li abbaglia
al varco della sera.
E, dietro, in ancora
lo stemma dei Savoia
trema sulla vela.)

 

Lui, monarchico
in casa socialista,
era la pecora nera
della famiglia.
Sua moglie, sarta,
lo spingeva dicendo
che ci avrebbe
guadagnato più rispetto.

Lui, che era stato
ardito e, poi fascista
della prima ora.
Con un gruppo di amici
si vedeva, per vincere
la noia, a dividersi
l’Europa sulla carta.

 Ammazzato con gli altri
sull’argine del fiume,
una mattina presto.
Scovato, dentro al cesto
con le piume d’oca,
sulle tracce della
figlia mentre gioca nel
cunicolo della cantina,
discesa e risalita
fino alla rovina.

 

 

6
(In piedi,
con la mano sul bracciolo
di un divanetto
in legno.
Un largo basco
da cui escono a corona
i capelli, su di
un abito pesante
con gonna a pieghe
e redingote
con il colletto
e i polsi di velluto.
Sullo sfondo,
un telone di broccato
tenuto da un cordone
di volant,
dietro al testa.
È segnata la data:
1.4 del  ’18.)

 

Per lei è rimasto
Il periodo più bello
della sua vita,
quello in  cui
ragazza, dal paese
di montagna,
era scesa a servizio
in una casa borghese
di Firenze.

Le piacevano i viali
all’ora del passeggio
e gli ombrellini
aperti con il sole
e le carrozze ferme
sul lato della strada.
E, alla domenica,
vestirsi a festa
per fare pure lei
la sua figura.

Si è convinta che
solo lì, davvero,
le hanno voluto bene
e già da allora
era paura che provava
e non curiosità
per ciò che la aspettava.

 

 

7
(Quasi calvo,
un viso tondo
segnato da due baffi
folti e scuri.
Nella giacca
di fustagno,
con la striscia
di velluto nero
sul risvolto.
Il padre di mio padre.)

 

Quest’uomo che non ho
mai conosciuto
e dal quale dipende
la mia vita.
Mancato a torto,
credevo,  poco o molto
al nostro appuntamento.

Di lui sapevo a stento
che, restato vedovo,
si era risposato
a dispetto di suo figlio
e che, colpito da trombosi,
era rimasto a letto
anni e poi era morto.

Per me bambino
era diventato
per non so
quale effetto,
l’immagine concreta
di un pensiero, in fondo
neppure tanto strano:
la colpa dell’immenso
disordine del mondo.

 

 

8
(Il berretto,
la giubba con il collo
quadrato e un cordone
bianco corto
sotto il braccio.
Sulla nave
in miniatura,
pronta a salpare
con la prua di cartone
dal suo porto.)

 

Oggi, di colpo, se
si lascia andare,
dicono, è perché
cade ammalato:
il crollo di pressione.
Oppure, peggio,
che lo fa perché
si è ormai fissato.

Lo sa che è
un’impressione.
In lui, quando
ci pensa, che la vita
sia sempre già passata
e non si possa più
giocare la partita.
Mancata ogni altra
chance, perduta
ormai finita.

Ma il venir meno
é  frutto della
sensazione dolorosa:
che sia stato
ingannato e derubato,
in tutto, di qualcosa.

 

 

*
La  presenza cancellata:
l’idea di una
cosa inanimata
portata al  punto
di farsi essenza
definita, eppure intanto
volto opaco e
senza  vita. Segno
evidente dello squarcio
sul quadro decoroso
dell’invalicabile distanza
del salto e del trapasso
nella scandita finzione
del presente.

 

 

9
(Il bambino  appoggiato
alle ginocchia di
suo padre, che muove
intento la manopola
e muto addita. Con la
madre che guarda, rapita
e tesa sulla radio.
Nel cerchio d’oro
del salotto.)

 

Si può dire
ch’io sia nato
e poi cresciuto,
via via allevato
all’ombra del decoro.

Disposto a ringraziare
del poco ma sicuro,
contento ma non
troppo. Propenso
eppure ostile
a ogni rivolta,
portato a coniugare
in assoluto rifiuto e senso
del rispetto.

Oh, il riflesso
amato, dall’orlo
già mai netto,
cola in eccesso…
la cima dell’abbaglio
sull’oggetto.

 

 

10
(Con l’elmo a punta
e la mantella,
sul cavallo finto.
Contro lo sfondo
cupo, di foresta.
Una mano sul fianco
e l’altra a sostenere
la sciabola, su,
tra testa e spalla.
Ride con qualcuno,
davanti, che – si
suppone – l’accompagna.
A penna, sul bianco
del cartone,
è appuntata la data:
18 maggio del ‘908.)

 

Partito, per il nord
della Germania,
a lavorare in fabbrica.
Si divertì, malgrado
le dieci ore e più    
al giorno. In fondo,
sempre meno che
a rimanere a casa.
Venuto in simpatia
alla figlia del padrone,
capì, a un tratto, che
si poteva sistemare.

“E la mamma…e
io, allora. Che
fine avremmo fatto?”
La mia richiesta
disperata al nonno, cui
tornava a galla per
chissà quale ragione
quel ricordo.
“Ma… aveva una
testa da cavalla.”

 

 

11
(Io, di sei anni,
credo. Distratto, ma
non troppo, dal gioco
al tavolino con i
tasselli dell’alfabetario.
Nonostante lo stato
precario della sedia,
immerso lì lo stesso
a combinare incroci
sul quadrante)

 

La parola, per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.

Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel suo
dirlo, di colpo riafferrato.

 

 

12
(In posa, senza
panni, seduto
sul muro di recinto,
con insolenza
stringe tra le labbra
un filo d’erba.
Il mento sollevato,
lo sguardo
rovesciato su qualcosa
o su qualcuno
là vicino.
Un ginocchio
puntella con la mano.
È annotata l’età:
ventitré anni.)

 

Dalla morte lo salvò,
a stento, solo il confino.
Ma era diventato strano
e non voleva uscire.
Come un bambino.

Per casa, andava
in cerca di occupare gesti
e non tenersi in bilico
nel tempo. Spinto
sulle tracce della gatta
ogni momento.

 

 

*
…un reale
ricomposto, reso
logico e ordinato
sottratto al
flusso incontrollato
della vita, atteso
al passo e
scivolato nel lungo
e stretto corridoio,
nel collo dell’imbuto
che l’ha raccolto 
frantumato e
reso per incanto
in un suo essere
compiuto e, nello
spazio di un istante,
intatto e ritrovato.

 

 

13
(Sul lungomare
in piena estate.
Lo chemisier
frizzante e
una borsetta bianca.
Si gira e parla.
La guardo che
mi guarda,
ed è beata.)

 

Mia madre, amata

e, per amarla,
tenuta più lontano.
Taciuta e distaccata
in  ogni piano,
sentita straripante
e spesa a rate.
Rivista a tappe
da una mia vita
autonoma e distante.

Legata al morso
dell’attesa,
senza presa, tra
noi, di un discorso.
L’altro capo
del filo che mi tira,
la forza di un percorso
senza uscita.

 

 

14
(Gli occhi a spillo
nella stretta galleria
tra la stola, su oltre
la gola e il mento,
e un cappello con
la visiera ornata
di retina.
Sulla foto un poco
maliziosa e
ricercata
vergata, sotto,
anche la firma
con pallida grafia
netta e rotonda.)

 

Non c’era cosa
che non dicesse
di saper fare.
Mai ferma o
con le mani in mano.
Senza posa. “Sì,
però la mia…”.
Il suo argomento:
la casa e la cucina.

Oggi, bloccata
tutto il giorno
sulla poltrona
davanti alla finestra,
vuole legata
la cagnetta
alla spalliera
nella stessa prigionia.

Adesso o poi,
comunque in un andante
che crolla e slitta
via, un fiotto di cascata,
qualunque cosa sia.

 

 

15
(I capelli tirati
sulle spalle,
gli occhi
piccoli e vicini           
e una mano
a cingersi la gola.
In un vestito
a pois. Di poco
oltre i vent’anni.)

 

Costretto dallo strano
invito al  tavolo
col gioco del proibito,
distratto tuttavia
per la sua spola
dalla stanza accanto,
il viso rosso, in fretta
a prender le mutande
appese con i panni
sopra il fuoco.
Bisbigli, intanto,
e gridi  soffocati
oltre la porta.

Preso e roso dalla
gelosia, per vendetta
su di lei addosso
poi a graffiarla,
sdegnoso, a più
non posso. Ma, alla
mamma, no… per
un  inteso patto
tra di  noi, neppure
una parola. Mi
lasciava, se era
sola, strisciarle
tra le gambe mentre
stirava e là frugarle
nella gonna corta.

 

 

16
(Con il grembiule
che pare un tendina
appesa al collo,
la mano tesa a salutare
e un piede imposto
con aria soddisfatta
sopra la cestina.
Presa di profilo,
la scena, in questo
avanzo di cartolina.)

 

Nell’aula dell’asilo
tenuti il dopopranzo
con il capo sul ripiano
nel dovere di stare
silenziosi, guardarsi
magari di nascosto
e ridere sepolti,
purché non colti
di sorpresa
e messi all’angolo.

Furtive, scorrevano
lontano e senza posa
le grasse suore,
entrando uscendo in coro
da porte invalicabili
per noi lungo i celesti
corridoi e come ritraendo
con vigore nelle nere
vesti, brano a brano,
le loro carni rosa.

 

 

 

*
È, forse, morto
quel passato?
O si nasconde fuori
del suo campo,
in un oggetto fermo
e distaccato…
Il pezzo di focaccia
inzuppato nella
tazza, quel
sapore ritrovato
all’improvviso,
tenuto e trasalito
fermato e  ridisceso
in ciò che a caso
può essere evocato
da un’immagine
che per riflesso
lo rende immaginato,
appena percepito
nel turbinio di segni
smossi sul tracciato.

 

 

17
(Una maglietta,
taglia di misura
sui pantaloni
che mi diverto intanto
ad abbassare
ridendo all’obiettivo.
Con la cintura però
di nuovo stretta
sopra ai panni.
Il giugno del ’54
a cinque anni.)

 

Tutte le mattine,
al nostro arrivo,
la solita battaglia
per le piastrelle
del cortile. Date
in concessione
a discrezione di noi
tiranni principianti,
da colorare con
i pezzi di mattone,
a file di aspiranti.

Amministrate, poi
per quelle tre bambine
che era intesa, e certo
aspirazione non sciolta
dal senso della colpa,
avere da toccare
presa ognuna in fretta
dietro ai cespugli
del muretto. Anche
se con poca polpa
ancora tra le gambe
e acerbo petto.

 

 

18
(La sigaretta
in mano
col braccio ripiegato
al petto, in mezzo
ad altra gente,
ascolta me
che quasi a lui
mi aggrappo.
Sorridente, però
anche lontano.
La giacca di velluto,
sopra a un maglione
che è liso e corto.)

 

Nel suo parlare
non già di Dio
ma del destino,
l’avevo colta…
in quelle macchie
sulla pelle
nell’alito tagliente
nei panni flosci
dell’accondiscendente,
della licenza e dello
strappo alla regola.

Mi  balenò, a sei anni,
la prima volta
l’idea di inconsistenza e
dell’inarrestabile
declino, il correre
di tutto a un punto morto.

 

 

19
 (Un grembiulino
chiaro, i calzettoni
a righe e i sandali
coi buchi. Mio
padre attento, e
preoccupato, a un cane
truce ma impagliato.
Segnato, sotto,
il conto e, a lato,
l’occasione:
il quarto compleanno.
Ottobre del ventotto.)

 

Io, diventato per
inversione il padre
di mio padre, in
questa immagine
ostruita, rimasta
allo stato di passato.

Rovesciato
il rapporto
di grandezze,
in un’ottica
che, assente,
resta comunque
equivalente.

Pronto, e contento,
a prenderlo per mano
a parlargli del mondo
e della vita,
guidandolo lontano.

 

 

20
(Il  piccolo vestito
gonfio, stretto al
laccio, con tutta
la ricchezza
sotto il busto
e le spalle ornate
di perlina.
E io che tiro, con
aria di stanchezza,
per un braccio
la bambina.)

 

L’estate, dopo pranzo,
chiuso nel terrazzo
a pianterreno.
Se non scappavo,
saliva a volte su
la Marcellina.
Morso sugoso, polpa
di pesca e frutto pieno.
Sdraiati in mezzo
ai vasi dei gerani.

O, all’erta e al buio
giù in cantina
sulle cassette della frutta,
a lei piaceva
tenere tra le mani
quello che prendeva.
A me, il gusto solo
di essere preso.
E l’idea che era ingiusto,
per me, e svantaggioso
che non avesse
pure lei il coso.

 

 

*
Il colmo, la radice,
sì, delle persone:
la dimensione complessiva,
un’estensione dell’oggetto
a simbolo e funzione
di tenuta, di durata.
Il punto pieno
che senza termini
contiene il senso
illimitato in cui
per convenzione
coincidono slancio
e ricaduta dell’azione.

 

 

21
(Io che guardo
fisso, avanti a me.
Ed ho un grembiale
con la cintura
e i calzettoni della
stessa tinta scura.
Le braccia, lungo i
fianchi. Ma non
disteso affatto, anzi
pallido e contratto,
sul chi va là.)

 

Mi aveva preso
un senso un po’ smarrito
di disdetta e di stupore
alla scoperta
che uno non trovi
mai il posto
che gli spetta
e non riesca a
stare a una misura.

Ed è finito, per me,
in sospeso il fatto
che vivere sia come
scoprire qualcosa
di interdetto
e di proibito,
che tutto nasca e
cresca di nascosto,
che avvenga insomma,
sì, nella paura.

 

 

22
(Ho una maglietta
larga, che copre
gli altri panni.
I sandali di cuoio.
Tenuto per la mano
alla ringhiera,
dal ponte fisso il mare
e una barca che
passa lì di fronte.
Ho sette anni.)

 

Eccola,
sciolta al vento
la vela dell’infanzia
all’orizzonte.
Si impenna a tratti incerta
riprende la sua fuga
più lontano.

Scolpita sembrava
la mia rotta
e indubitabile, in
qualche modo aperta.
Sogni, progetti e piani
tutti, i più strani,
veloci e via guizzanti
sopra i flutti.

Se guardo indietro, ora,
mi vedo un po’ annegato
dal vuoto che, come
un vetro, si è posto
tra il me di adesso e
quello più  discosto.
Per quanto rivelato
in molti luoghi e
aspetti, tanto
più nascosto.

 

 

23
(Ride mia madre
rovesciando il viso,
e muove appena
i capelli ondulati
indietro sulla schiena.
Il giovane magro,
oltre lei levando
pensoso lo sguardo,
sta come incerto
di un sorriso.
Nella tiepida sera
che si indovina.)

 

Ai cespugli del fiume
guidò mia madre
il primo innamorato
e suo fratello geloso
spiando i loro passi
gli correva dietro
tirando sassi.

Cadde di mattina
in un addestramento
prima di partire
per il fronte.
E a lei  andò, con
l’eco della gloria,
il poco che tra i resti
fu trovato.

Sfogliandone i ricordi,
sempre ho pensato
a quel che era e che
poteva non essere stato,
al caso cui si lega
ogni storia.

 

 

24
(Mio padre
giovanissimo, insieme
ai suoi compagni
che si intuiscono
di fronte.
Scherzano,
e lui risponde
mimando
gesti sessuali.)

 

Tra pratiche di
vecchio e nuovo corso,
in un ufficio
della ricostruzione,
ci fu l’incontro
con la ragazza che era
mia madre, allora.
E principiò la storia
che mi riguarda
ancora.

È stato giovane e
anche lui ha imparato
vicende e parti dell’amore.
Eppure, tra di noi 
con muto patto
fingiamo di ignorare
che stia provando l’uno
quel che l’altro
ha già fatto.

 

 

*
Figure e oggetti, sulla
traccia del concreto,
che disegnano l’altra
faccia del presente
scisso, evanescente e
sfilacciato: quella
del discorso sistemato,
fatto logica porzione
di un immenso, specchio
o ritratto di un valore
rifondato, esperibile
immanente… alfabeto,
perfino dall’abisso,
del non senso.

 

 

25
(Camicia e
cravattina sotto
a un giubbetto.
Mani dietro alla
schiena, appoggiato
con la spalla al
muretto del terrazzo.
L’espressione un po’
perplessa, tra
il soddisfatto
e l’imbronciato.
È dichiarato l’anno,
aprile del ’57.)

 

Vedendomi
su questa foto
non mi chiedevo, allora,
che sarebbe stato.
Ero sicuro
che più avanti,
comunque andasse,
ancora
mi sarei guardato.

La cosa  strana è che
non mi sentivo
essere, affatto, ma
proprio già passato.
Come colto e fermato
di volta in volta
in quella posa
contro il muro.
Allontanato da me
e, in parte, escluso
da ogni possibile futuro.

 

 

26
(Mia sorella
di pochi mesi,
avvolta in un grembiule
che la preme.
La tengo, perplesso,
per un dito.
Quasi smarrito.
Le stesse orecchie,
uguali e occhi
e naso e bocca.
Ho cinque anni.)

 

Poi, scocca l’ora
che uno neanche teme.
Essere stati assieme:
scoperte e giochi
negli stessi panni…
e arrivare
a perdersi di vista.

Trovarsi raramente
e non avere, adesso,
niente più da dirsi.
Di qua e di là
da un muro,
magari in cima.
Ognuno assunto
un ruolo, la parte
di una vita che
prima era comune
e ora dista chissà
per quali eventi.

L’oscuro delle
rette divergenti
da un punto
sulle carte
all’infinito.

 

 

27
(Di me, che vengo
a me più grande
e più lontano,
l’immagine che
avanza dallo specchio
di un vecchio armadio,
nell’anta che si
apre piano piano.
Con una mano tesa
a fare, forse, da
difesa e, l’altra,
stretta alla maglietta
nell’atto emerso
di coprirci il viso.)

 

È che restavo
ignoto, nel complesso,
nel senso del ritratto
e del contorno
che si era lì riflesso.
Distratto per l’inverso
da me stesso
nel mio apparirmi
di colpo più preciso,
perso nel chiuso
nei punti dell’oggetto.

E, oggi, ancora
cogliendomi diviso
da quello che mi penso
non mi vedo,
né giovane né vecchio
non so se bello o brutto.
Mi avverto come ingombro
oppure mi scompaio
quasi del tutto.

 

 

28
(Mia madre
mentre getta
indietro la testa
sulla camicetta
di seta, sorridente.
In un cappello
nero. L’abito
leggero, fantasia.
Con una mano
stretta sulla gola.
Piena di vita,
ardente.
Sui  vent’anni.)

 

Ma non la riconosco.
La guardo e non
la vedo: il modo
non mi è noto.
Come quando frugavo
nella sua borsetta,
tra la scatola di cipria
lo specchio e la limetta.

Che lei vivesse
e fosse già felice…
mentre io non c’ero,
non esistevo
neppure come soffio
o impronta o vuoto.

 

 

*
La scoperta che
i tanti minimi
e spaiati tratti
appartengono allo stesso
sistema generale,
fatto di parti
e di rapporti
che hanno perfino
un senso, nel loro
disordine totale.

 

 

29
(I genitori, dietro.
Il padre, in piedi,
soddisfatto tenendo
la mano della figlia
che lo guarda
di sbieco, sotto la tesa
della paglietta, un occhio
attento all’obiettivo
e l’altra mano stretta
a stendere le pieghe
del vestito.
La madre sta inchinata:
sorregge il piccolo,
con un cappello di carta
di giornale e col secchiello,
salito in equilibrio
sul cavallo a dondolo.)

 

Di  lui, della
sua corsa
giorno su giorno:
il negozio, la casa
la famiglia.
“Per i figli,
Giovanna…” .

Eppure, già il destino
che lo piglia
alle spalle,
segnata  la condanna
senza appello.
E non pensare, se mai
ne avesse il tempo,
che si assottiglia,
e inganna, la distanza,
sul cammino.

Crepato, lui,
di cancro all’intestino
e morta, a un anno,
di tumore, lei,
al cervello.
Il più giovane
andato giù di testa
e la figlia che si affanna
a tappare i buchi,
a fare i conti
di quanto resta,
per curare il malanno
del fratello,
pagata all’occasione
per due volte
a danno e ingenuità
la successione.

 

 

30
(Tutto raccolto,
le mani giunte
sopra  il naso,
inginocchiato sulle scale
a recitare le orazioni.
Con gli occhi fuori,
però, distratto
dalle intenzioni, per
apparire nel ritratto. )

 

Scoperto per caso
da mia madre
sdraiato a letto,
le tasche dei calzoni
piene di donne nude
figure appetitose
tagliate dal giornale.

Minacciato di oscure
punizioni, di morte
e di catene.
Eppure, nonostante
le paure, coinvolto
e attratto
dalla logica per cui
le cose belle
devono far male.

Scende, sale
precipita nel vuoto
e a niente
vale…

 

 

31
(I baffi  scuri
a spazzola,
posa con la
divisa di cavalleria.
Di sé sicuro
ma distratto,
appoggiato con una
mano alla colonna
e l’altra al muro.)

 

Il nonno rifiutava
di iscriversi al
partito e, di notte,
venivano a picchiarlo.
Mia madre ci si
prese il malcattivo.
Se ne dovette
andare dal paese, perché 
non lo lasciavano
più stare.

Da allora non poté
che sopravvivere.
L’aveva già capito
che nulla, o molto poco,
per lui era cambiato.
Ma mai che andasse
a vantare in giro il
suo passato.

Eroe di un tempo
un po’ attempato,
in cambio di un’idea
di libertà, fu
offeso e poi tradito.
Analfabeta, di domenica,
comprava l’Unità.

 

 

32
(Il piccolo  fagotto
abbandonato in mezzo
a nastri e fiocchi,
nel cestino, avvolto
in fiori bianchi.
Stampato, sotto,
unito ai dati
un novenario: “Nulla
della vita  conobbe”.)

 

Dentro la sacca
di acque fu, alla
deriva, naufrago.
Portò non i suoi pensieri,
piaceri e ansie
d’altri.

Pesce di un mare minimo
fu tratto fuor dal vaso,
da ombra piena
fu distaccato
e, pur per poche ore,
denunciato alla legge
e all’elenco degli
uomini stati.

Stato era solo
assestamento di funzioni
non riuscito. Qualcuno
principato e
mai finito.

 

 

*
… un segno
il dato, ma non
memoria o nostalgia,
di ciò che è stato.
Amato o non amato
comunque, sconosciuto.
Perduto totalmente,
caduto dentro
il suo finire in
quello stesso
essere fissato
prima di perire.

 

 

 



  Paolo Ruffilli Mail: ruffillipoetry@gmail.com