Traduzioni:


LA GIOIA E IL LUTTO
Passione e morte per Aids

(Marsilio, 2001, 3a ed. 2003)
ISBN 88-317-7646-0
www.marsilioeditori.it


 

a mia figlia e a tutti i figli del mondo

 

“La verità è che
nascendo o morendo
non c’è, in fondo,”
mi ha detto mia figlia
piangendo,
“nessun rispetto
per la dignità della vita
nel mondo”.

 

...solo ciò che hai amato per davvero
non ti sarà strappato
ciò che hai amato per intero
è la tua vera eredità
E. Pound

 

LA GIOIA E IL LUTTO 
(1987-2000)

 

L’accendersi e
lo spegnersi
(per caso?) della vita,
la traccia luminosa
la scia che lascia
dietro a sé
quello che è stato,
amato e conosciuto
per essere perduto,
la gioia e il lutto:
precipitato, tutto,
nel cieco vaso
tra le braccia del buio.
L’orma, appassita
eppure intanto rifiorita,
di ogni cosa.

 

 

Così ridotto e
devastato: lui, reietto
perduto per la strada,
lui drogato. Perso, adesso,
anche dentro il letto
accartocciato
nel lenzuolo bianco
smunto e arreso là,
riverso sopra il fianco.
Diventato la metà e meno
di se stesso,
rinsecchito dentro i panni
fatto vecchio e cadente
nel fiore dei suoi
anni, nel pieno di una
vita già appassita.
Inerte ormai a tutto
e senza presa intorno
neppure sulla
luce pallida del
giorno. Sangue del suo
ventre, carne della carne,
mentre siede china
sul fagotto muto,
gli giace presso
tesa a farne oggetto
finalmente della pace.
«Figlio amato, qualunque
tu sia stato», il gemito
tenuto e poi lasciato
nel silenzio che
precede la rovina. 

 

 

Dà la caccia
ai più giovani di noi,
rovina quelli
in forze, ne
fa suoi zimbelli
che tormenta e poi
cancella, non guarda
in faccia ai meriti
e all’età, trascina
a fondo le vittime volute
e preferite, rapina
e spoglia, saccheggia
con gli artigli i soli
a lei graditi. I ruoli
sono ormai invertiti:
i padri seppelliscono
i figli, si prendono cura
delle loro vite perdute,
li stringono feriti
tra le braccia, li
vegliano morenti, senza
più paura assistono
impotenti all’agonia e,
piangendo, se li sentono
strappare via.

 

 

Correndo, tutto, in piena
nel suo girare in tondo
...entrate uscite
sparite e ricomparse
tramontate, le cose,
vedute e via svanite...
Oh, quale oscura e spenta
mattina va crescendo
sbattuta e
muta al vento
sul palcoscenico del mondo.

 

 

“Quello che accade
fuori di qui
non mi riguarda.
Sono diverso ormai
dal resto della gente,
si sono separate
la mia e le altre strade,
divento escluso
dalla vita e stento
a prenderne possesso,
dimesso senza appello.
Mi sento sperso
dentro il viavai
delle persone
in questo cesto pieno
della mia stanza
e la ragione
è che tra me
e le cose intorno
si è stabilita
quasi in un baleno
la distanza abissale
e niente vale
a superarla.
Cos’è? Che fai?
Continuo a interrogarla
la mia coscienza
ma non riesco adesso
ad aiutarla,
non attraverso più
le sue cortine
di vuoto e di sostanza
del mio già stato.
Non c’è ritorno,
forse, dalla fine”.

 

 

Il male, consumandolo
gradino per gradino,
lo ha eroso e
via accorciato
riportandolo allo stato
dipendente di bambino.
Con la maniera sua
che aveva allora
rivede il padre,
da distante che era,
di nuovo ritornato
onnipotente
e al lui di ora,
disposto a tutto
per arginare
l’attacco furioso
che lo assale,
con uno sguardo
smarrito e trasparente
bramoso di conforto e
di sollievo dal tormento
pieno di spavento
ancora chiede
implorante
di essere salvato.

 

 

...il moto andante
nello stadio lento,
il respirare corto
del vivente
in procinto di passare
oltre, nel momento
del suo stare
per ridursi assente...

 

“Mi sta esiliando
a tappe, il mondo,
a pezzi e a morsi
per gradi esautorando,
togliendo voce e
forza di operare,
separando ed escludendo
dal contesto naturale.
Mi ha già tradito
diventando,
da amante che era,
mio feroce e accanito
nemico personale.
Qui dentro la galera
io solo resto consegnato
alla custodia artificiale
mentre tutti quanti
gli altri, gli amici,
i dottori, l’infermiera,
hanno un’altra vita fuori,
uscendo di ospedale
per loro il campo
è aperto e illimitato
dovunque ognuno vuole.
Lo so che non potrò
più fare parte
per niente della schiera,
lo avverto dal coro
dei discorsi rincuoranti,
dal lampo intermittente
di chi mi fissa incerto
e ¬ cosa  più dura
e più dolente ¬
dall’incrinatura
delle spente parole
di mia madre”.

 

 

Rabbia e paura
disperante disperato
sconforto, a ragione
o a torto, tumulto
e furore in rivolta
colta e già vagante
precipitosamente
non più in occulto
ormai per sempre
l’occasione.

 

 

Di nuovo così innocuo
e disarmato
come da neonato,
bisognoso di cure
e di riposo,
imboccato, accudito
e sorvegliato nel frangente
di ogni suo istante
e movimento.
Un’altra volta, ora,
mi sento preda
ancora dello stesso
spavento avuto
spesso allora
e non c’è cosa
che non veda allarmante
e non mi chieda,
riguardo al suo stato
presente, se mi ascolta
se ha caldo o freddo
se è indolenzito
magari se respira
o se è bagnato.

 

 

Me lo rivedo qui
appena nato,
come fosse adesso.
Ero incapace
di amministrarlo
e impacciato perfino
a maneggiarlo.
Fonte di ansia, io,
e di apprensione
a scatenarlo
a renderlo vivace,
lui così beato.
Via via  intruso
e da me stesso
escluso dalla trafila
di pappe e pannolini,
perdendo poi
equilibrio e
finendo per sentirmi
menomato,
a galla procedendo
ai suoi confini.

 

 

“Credevo, da bambino,
di non essere
granché desiderato.
Venuto, sì, a turbare
una misura per niente
in grado di tenere,
trattato con paura
o sopportato.
Mi sembrava
di restare inascoltato.
Cresciuto a caso
in modo strano:
papà impaziente
lontano nel suo stare
sempre lì vicino,
mamma nervosa
e prepotente
nel ritenermi cosa sua
sul palmo della mano,
pensando a tutto lei
padrona dei miei sogni
volendo provvedere
con la sua sola cura
ai desideri e
ai miei bisogni”.

 

 

Strappare via chi ami
dal cuore della carne
in cui si annida
è come sradicare
la quercia dalla terra:
affonda negli strati
reconditi i suoi rami,
gli oscuri capillari
scesi giù a cercare
sostegno e alimento.
Ma nessun urto mai
per quanto sia violento
riesce a estirpare,
da dentro, il fondamento.
La forza che si avventa
e che l’afferra
smuove la base e
la dissesta dal suo centro,
spezza e squarcia
fette intere, svelle
molti dei suoi bracci
lasciati lì sospesi
nella cascata
delle barbe nere
e porta su
con la sua parte lercia,
con la materia
marcia e purulenta,
con la putrefazione la purezza,
un bene penetrato
nell’imo del più fondo
attecchito nei vuoti
più remoti,
dove resta
contro ogni furto e errore
la vita abbarbicata.

 

  
“Non c’è più per me
niente da fare,
nonostante gli sforzi
e le conferme ripetute.
E chi mi va assistendo
la notte e il giorno
è già distante,
calato nel presente.
Non ho trovato
effetto dalle cure,
neppure ci sarà
nell’immediato
o nel seguente.
Sento le premure mute,
l’allegria mesta
dell’infermiera
e le prove di affetto
di tutti i miei qui intorno,
gli occhi rossi di pianto
come vòlti, tacendo,
a tenermi nascosti
le loro previsioni
e lo stato disperato
della mia salute,
inutilmente
perché tanto
me ne sono accorto
dell’intera gravità.
Stiamo perdendo
reciproche occasioni
per il poco che mi resta
e prima che ne sia impedito
voglio tornare a casa
a stare nel mio letto,
nei posti che mi sono
familiari.
Per trasformare
in conforto dal dolore
e magari in festa
questa gente
che mente per amore”.

 

 

Porto sicuro e
perno del giorno
che svolta rapace
rotte le sponde
nel tuffo nel pozzo
in mezzo alle onde
nel fondo che abbaglia
intanto che smorza
che giace e che vola
arreso e ribelle
disceso salito
all’averno alle stelle
tracolla deraglia
frigore e caldana
col peso smarrito
che calca e che salta
si piega e ribalta
cavalca si sforza
sul cuore fiumana
di una notte di pace
al bordo concluso
lo spazio che regga
recluso condotto
di sotto di sopra.
Che lo protegga
che lo ricopra...

 

  
È l’altra faccia
rimasta in ombra
della vita, la parte
preminente ma ignorata
in contrasto apparente
con la legge, polo e
calamita che al suolo
attira i corpi
li tiene tra le braccia
li regge li sostiene
base e piedistallo
per ciò che si è deposto
lasciato e, sì, ridotto
al puro stato...
che informa, invece,
e smuove il mondo
avendo imposto
la pausa dal cammino
arresto al moto
per un maggiore slancio:
pedana e trampolino.

 

 

Il fiore della vita
si rapprende ben prima
di essere maturo
e versa dalla poca cima
la sua cruda stesa
di spine laceranti.
È troppo stanco
per guardare avanti
¬ lo abbaglia un minimo
barlume ¬ e continuare
là in fondo al letto
a lottare per il suo futuro
in difesa ormai di una
nemica. È persa la
battaglia, senza rimpianto.
Rovesciato sul fianco
contro il muro
fa fatica perfino
a respirare. Su
dal groppo che gli pesa
dentro al petto,
qualunque sia la piega
che distende, sente
salire solo il desiderio
infine di restare
consegnato in balìa
del fiume oscuro che,
affogato, se lo porta via.

 

 

Per che ragione
non mi sia
sforzato prima
di capire?
È colpa mia.
I fiumi di parole
a te che mi chiedevi,
che pretendevi
appoggio e simpatia
da me, opere vive.
Ti ho dato prediche
per comprensione:
sentenze, direttive
e ammonizioni.
Ti ho tradito
nelle aspirazioni,
rassegnato mio malgrado
all’avidità del mondo
e ai suoi costumi.
Ti ho lasciato solo.
Peggio, respinto
e calpestato.
Sbandato per inerzia
io, caduto
nelle contingenze,
convinto a farti astuto.
Non ti sei perso,
no, sono io
che ti ho perduto.

 

 

“Che dura la scoperta
che hai deluso
le loro aspirazioni
e non sei affatto
come avevano sperato,
che tu non assomigli
neppure di lontano
all’idea certa
che avevano di te.
E che dolore
addolorarli
addirittura per amore
senza ingannarli
e rivelare loro
appieno lo stato già
negato invano,
la verità di mostro
sapendo di squartarli
dentro la carne
ma non potendo proprio
farne a meno
e disperarli.”

 

 

È la realtà incoerente,
il vuoto e il pieno
della vita, la sua
andatura intermittente,
la misura finita
e balbuziente
del nostro piede
incespicante
scivolato su niente,
il lato e dato
umano della storia.

 

 

“Quando succede,
più niente ti assicura
neppure per il poco
e non c’è mezzo
per venirne fuori,
si spezza il filo
dell’onore, non hai
più fede in te, nelle
tue doti:
finisci alla deriva.
Così mi è capitato
di andare a fondo
perché sulla fierezza
si è imposta
la remissività,
sull’autostima
il mio disprezzo e
sull’orgoglio di prima
la vergogna, sì.
La paura del mondo
mi ha svuotato
della volontà.
Finché non l’ho incontrato
e ho sentita, viva,
la necessità
di avere e ricambiare
anch’io l’affetto.
E proprio mentre
mi appariva ormai finita,
affogato nel vano
mio dolente, di colpo
ho ritrovato
con la forza       
un imprevisto senso
nella vita”.

 

  
Mi sono spaventato
a contatto
con il suo dolere,
temendo di non essere
capace affatto 
a  reggere il confronto
con lui disfatto e spento
in giovinezza,
e aggiungendo angoscia
al mio violento stato
di sgomento. Ma,
superato poi il terrore
dopo il primo impatto,
mi sono ritrovato
pronto all’evenienza
sia pure nel tormento
e senza soluzione.
Io, amante amato,
vedendo a me
riconosciuto
¬ favore più crudele ¬
il fiele crudo
della sopravvivenza,
mi sento senza appiglio
ingannato di fronte
alla sentenza,
scontento e defraudato
nel risultare
contro ogni previsione
preservato e intatto.

 

 

Prenderò lui,
adesso, come figlio:
sarà per me
come eri tu,
gli vorrò bene
¬ te lo prometto ¬
anche di più,
se non ti pare
una bestemmia,
per il tuo nome
e per il tuo ricordo,
per non far torto
al tuo volere
e al tuo sentire
e non per questo solo,
non solo per dolore
e per rimorso
ma proprio per amore.

 

  

È stato, questo,
il mio più grande errore.
Perché ho aspettato
di vederlo ormai
piegato al suo cospetto
per dirgli forte 
che conta solo
quello che ha provato
e dato intensamente
chiunque abbia amato?
È ciò che l’ha salvato
e fatto vivo
prima di essere
colpito e logorato.

 

“Non è per un consiglio
o una spiegazione
che ti inseguivo
ingordo nel tuo studio,
nemmeno mi importava
troppo l’opinione.
Per un abbraccio,
venivo là a cercare
approvazione.
Coprivo trattenendo
la lava incandescente
che mi montava
dentro, facendo
finta di niente
gridavo senza dirlo:
«Papà, ecco tuo figlio»”.

 

 

Quanto tempo perso
senza dirsi mai
quello che conta,
privi di attenzione
l’uno per l’altro
distratti intanto verso
la cosa irrilevante
in un agire vano
comunque
poco importante,
pensando magari
di avere chissà
quale larghezza
in un’eterna dilazione,
sprecando invece
parte della vita
in futili misfatti,
sognando arrivi e
ripetuti contatti
e, finalmente,
l’occasione.
Tacendo nel frattempo
a sé il bene provato
e per chissà
quale ragione
della testa o del cuore
ogni volta mancato.
Nell’incoscienza
della finitezza e dunque
della libertà sepolta.

 

 

L’origine segreta
a un tratto colta
e resa manifesta,
la fonte, la fessura...
di un proiettarsi
al meglio, al positivo.
In ciò che, stante,
creduto per durare
diventa poi stato
inamovibile, cessato.
Ma, intanto, è
geiser, soffione
boracifero, spumante.

 

 

Il sogno meridiano
la gioia posseduta
eppure andante
l’euforia...
un tocco arcano
che rende tutto
via via sempre
meno piano e
più eccitato:
sfrenata frenesia.     

 

 

“Se guarisco, io,
e torno a camminare,
se starò dritto
se potrò uscire
per conto mio
e andare nuovamente
come mi piaccia
dove mi pare.
Mi basterebbe
il tragitto breve
fino al giornalaio,
anche con la neve
e il rischio di cadere,
e che lucente idea
sarebbe l’avventura
di un intero viaggio
più lontano,
un’odissea da un giorno
a caccia di imprevisti
soste e incontri
scoperte e deviazioni.
Mi fermerei a bere,
solo per il gusto
e per l’odore,
una tazza di caffè e
rimarrei  al chiuso
ad annusare
il fumo delle sigarette.
Entrerei a parlare
con il verduraio,
guardando il colore
nelle sue cassette
di ogni frutto e ortaggio
e riempiendomi la mano
delle forme perfette.
Perderei tempo
lungo la strada
sulla traccia scovata
del mio gatto,
ingoiando l’aria
fredda e pura
e sorseggiando
per lungo tratto ancora
il sapore della nebbia.
Se guarisco... io
riattraverso il già fatto
e il già veduto,
l’incommensurabile
che ho conosciuto”.

 

 

Ma tutto è ormai
perduto, finito e
scivolato sul pendio
del tempo consumato,
svanito e dileguato
nella falla
senza ritorno
indietro dall’addio.

 

 

A forza di salire
per quanti mesi e anni
le scale della vita,
si va imparando
con l’esperienza
il rito del cordoglio
e l’arte di morire
senza inganni:
coltivando gli ultimi
istanti, al capezzale,
celebrando l’atto
finale dell’uscita e
cercando di restituire
con l’argomento
dell’intelligenza
senza orgoglio
dignità all’insufficienza
degli organi, al danno
della funzione cerebrale
e alla distruzione
progressiva
di ogni centro vitale.
  

 

È un momento di incontro
e di saluto:
la sua consolazione
nello spavento
e la consolazione
dal lamento di quanti
gli hanno voluto bene,
nel punto in cui
si stanno separando
andando ognuno
nella propria direzione.
Sospesi, gli uni, insieme
e lui di là attento
nel buio che lo abbaglia
oltre il varco adesso
di ogni previsione
dentro il rovescio
della sua medaglia.

 

 

“Vi ho salutati,
tutti, senza parlarvi.
Vi ho ringraziati.
Siete stati
la forza e la ragione
nei miei affanni,
nonostante il male
che vi ho fatto
nel mio errore ripetuto.
Ho imparato ad amarvi,
lo sapete,
e vi voglio bene ancora:
mi rimarrete in mente
e dentro il cuore.
Ma vado via di corsa
staccandomi dal mondo,
sto quasi per lasciarvi
e solo guardo avanti.
Non vedo più
neppure nel presente,
mi sento sollevato e
galleggiante, in volo,
non felice proprio
ma nemmeno sofferente,
attratto ormai dal salto
in cui precipitando
sono, e sto,
caduto”.

 

 

Non è straziante, no,
come ha temuto:
giace sprofondato
dentro di sé e
abbandonandosi discende
nell’imbuto. Non
si oppone più:
qualcosa lo conduce
finalmente in pace. 

 

 

Diga barriera spartiacque
¬ isola e ponte ¬ tunnel
cunicolo passaggio
da cui filtrare in là
tutto il resto
del mondo.
Invisibile curiosa
cucitura
che pesca su dal fondo
innesca ansia
e assicura integrità.
Il doppio gioco:
entrata uscita
paura e confidenza
la pausa e il moto.
La verità che si apre
e si richiude sull’ignoto.

 

 

Ti vedo ormai
solo di spalle
come dall’alto di una
vetta calare giù
sempre più in basso,
avanzare per la stretta
calle in fondo al varco
dove sparirai.
Non te ne andare,
stai qui, aspetta.
Sei già in contatto
con qualcosa d’altro
cui non riesco affatto
a compartecipare.
Non mi potrai
vedere solidale.
Chi ti mette fretta?
Che ragioni hai? Resta,
ti prego, perché
lo so che non lo sai
ma sono io
a sopportare il furto.
Aria di ogni mio
respiro, sangue
della mia carne.
Senza di te che farne
della mia vita?
Che oscure previsioni,
che flebile realtà
mi si presenta,
che innesco straziante.
Ma il tuo sguardo
è altrove:
dove, non appare
però non più qua in giro.
Fissi un altro mondo
a un passo appena
eppure via remoto,
distante, siderale.

 

  
Labile specchio
schermo di paura
su cui campeggia
il vuoto.
Imprime alla freccia
il moto e
glissa a lato
la mano timorosa.
E il mondo incappa
nella rete, tolto
alla nebbia, per ventura
colto e richiamato
nei tratti del gesso
che si incide gratta
striscia stride,
mostro di scrittura.
Così, dal buio fermo
la lastra polverosa
fissa su dal fondo
il bordo della cosa.

 

 

Muovendo intorno
al suo vaneggiamento,
ho appena fatto
in tempo a ribadirgli
che significato
hanno avuto per me
la vita che ha vissuto
e il troppo lesto volo
che ha compiuto
sulla schiena del mondo.
È stato il modo
per condividerne la sorte
fino in fondo,
restituendo dignità
alla morte e impedendo
che restasse solo.

 

 

Ammesso che si possa
ancora continuare
a essere presenti
sedendo lì vicino
a chi tacendo
chiude il suo cammino
e parlare davvero
a chi per porte interne
appare trapassare
in un altro sentiero
dentro il suo destino.

 

 

O Dio nascosto
ma forse non lontano
agognato e inseguito
senza essere stanato,
o Dio segreto
del cuore e della mente
che tutto vede e sente
decifra e ricompone,
o Dio sognato
dormendo il sonno grosso
degli ingiusti,
qualunque sia
il tuo stato,
qualsiasi posto mai
dell’universo
ti contenga sommerso
ed infinito, perno
fisso in eterno dentro
il suo girone, tu,
scandalo del mondo,
allunga la tua mano
e reggilo nel suo precipitare,
portalo di là
oltre il fosso grigio
del nostro disamore
e fallo lì planare
nel lieto tuo alveare
dal fondo dell’abisso
nel fiore del tuo fiore.

 

 

Che sarà, dopo?
Cosa accadrà?
In uno stato di incoscienza
permanente...
oppure, un vuoto...
o, peggio, il niente...
Chissà che un altro
modo di sentire
non ci consenta l’esperienza
di una vita rianimata
dal morire.

 

 

La forza che si gonfia
premuta e prorogata
ancora per chissà
quale estensione,
la furia incontrastata
e prepotente mentre
sale tronfia e investe
con la sua violenza
e azzanna ognuna
delle parti peste,
la potenza intatta
che lo spinge a uscire
fuori da se stesso
proteso e sbilanciato
dentro lo spacco
della sua ferita
aperta e tumefatta
mai più cicatrizzata. 

  

 

Piena che porta
che piega che smonta
da sponda a sponda
che cala che salta.
Onda che prende
che piomba e dilaga
che versa che fonde
che spande che
dissipa avvolge
congiunge. Finché
si infranga e giaccia
occulta la presenza
cancellata. E sotto
l’urto della valanga
divelta risulta sradicata
dalla sua falda.

 

 

Il corpo è piatto
senza tono
costretto a un foglio
di velina che si fa
corto e vuoto
non sostenuto più
dal soffio,
il palpito è dissolto
e sciolto il fiato
è spoglio, svanita
la sua essenza, l’aria
è uscita dall’involto
in abbandono
e già in balìa del niente
e dell’inesistenza.
Andato chissà dove,
estratto, lui è spirato
e gli è volata via
la luce dallo sguardo,
è diventato opaco
e grigio nell’istante,
con gli occhi sgonfi
senza le pupille.
Gli si è spenta,
la vita,
dopo la tormenta.

 

 

Che senta o no
ancora... Diventa
un altro stato
poi che è scivolato
dalla violenta fase
del dolore
alle tranquille ombre
di una  parvenza
stenta e già svanita
prima della sua
sortita.

 

 

Cosa ci resta?
Se non la privazione,
la condizione monca
da sopportare intanto
insieme con i sensi
di colpa
per quanto potevamo
e non abbiamo fatto.
È morta lì con te
gran parte di noi stessi,
perché senza saperlo
eravamo i complici
di quasi ogni tuo atto,
perché era vita nostra
la tua vita.
O figlio amato
e, nell’amarti,
finalmente conosciuto
pieno di tormenti
e di virtù segrete.
Che mesta eredità,
che amari sentimenti
ci è capitato
di ritrovare, ignari.
E da Tizzoni Ardenti
come ci avevi battezzato
eccoci qui ridotti
¬ se ci vedessi ¬
a mozziconi spenti,
in attesa magari
¬ e lo speriamo ¬
di ripigliare fuoco,
un poco almeno
nonostante il rimpianto
per la gioia, di più,
che ancora avresti avuto
tu, che per la festa
che ci avresti dato.

 

 

La pace dopo la furia
scatenata. Giace
riverso sulla sua
sciagura, perso alla
vita, l’appestato.
Giustiziato dalla legge
spuria. Senza scampo
sotto tortura
caduto e scorticato.

 

 

Non è per niente
la piaga biblica
non è la punizione
per i mali del mondo
non è un castigo
ma un delitto atroce
un’offesa alle persone
della natura indifferente
e a portarne la croce
negli anni cardinali
della loro vita
è la schiera folta
e non cattiva
dei giovani
finiti alla deriva
sotto la cappa nera
per una colpa vaga
di slancio e delusione
frutto dell’età
e per la confusione
di parti e di obiettivi.
Lasciati privi
del tutto di difesa
e non potendo opporre
resistenza all’aggressione
già in balìa della malattia
dell’ipocrita nemico
che, feroce imbroglio,
si traveste e spaccia
per diverso
sfuggendo quanto occorre
a chi gli dà la caccia
e, incolume così
vigliacco, intanto
fa la sua razzìa
senza pietà saccheggia
nel sommerso.

 

 

Stato ancipite
della natura,
la sua duplicità
di scudo e di nemico
è fonte di rimedi
e di pericoli mortali
e tanto ci concede
per quanto chiede
in cambio. Niente
ci regala che
già non ci abbia tolto.
Arte dell’ambiguità
testa di ponte,
ci guida di ritorno
dal passato remoto
nell’età futura.
Alle sue soste
oppone il moto,
il pieno al vuoto
il positivo
incontro al negativo
e a ogni azione poi
una reazione,
uguali e opposte.
Sprona in noi risposte
per darci scampo
in quell’ambiente
che ha creato intorno:
ci cala dentro il rischio,
sfida di molto
la nostra immunità.
Ci perde in parte
per salvarci in toto.

 

 

La sua vita
non è più
nel corpo,
qualcuno gliela
ha estratta.
È altrove ormai
più su nell’aria
levita leggera
si allontana
intatta
dal guscio dove era
prigioniera.

 

 

A restare, poi,
per poche ore ancora
è questo involucro, di noi,
contratto e rattrappito
denudato nel profondo
fatto bianco sporco
del colore pesto
della cera.
Lo spirito vitale
che impregna
l’imo dei tessuti
facendoli pulsare e
dando loro unanime vigore,
se ne è uscito
andato dileguando
a navigare quali mari?
L’anima fuggendo
l’ha trascinato fuori
prima dell’assalto
che propagando dentro
tutto ha dilaniato.
Vergogna e disonore
di una natura che,
incurante, ci sfigura
fino a lasciarci
non più riconosciuti
ai nostri cari.

 

  
Ma quale dignità
o mai significato
può esserci
in un’azione
tanto deturpante...
Il maligno predatore
avanzato dall’interno
cintura e poi macigno
con le sue torte
propaggini aggrappato
con gli uncini
dei tentacoli entrato
nell’oscura fondità
sanguisuga dei tessuti
ordigno e parassita
senza rumore intanto
ha divorato vita
dal cuore sino
agli ultimi confini
guastando
mordendo avidamente
adulterando
appiccando l’inferno
all’interiore.

 

 

Unghia feroce
lama fedele
che scava selvaggia
attorce ed impiglia
fa brace ed agghiaccia
accresce e consuma
tra le sue braccia
la sorte crudele .

 

 

Me ne rendo conto
a stento ma
nonostante tutto
sono contento, ora,
che si sia sottratto
infine al male
subdolo e impietoso
degradante
che ha devastato
il corpo e la sua mente,
ottenebrato dal dolore
arso dalla fiamma
che giorno dopo giorno
l’ha eroso e estinto
nei suoi strati sani
della giovinezza.
Però non l’ho
accettato, il dramma,
nell’averlo conosciuto.
Non è stato di conforto
alla mia incertezza
che l’unica salvezza
sia, talvolta,
la morte
per chi ami.

 

 

Se ne è andato
abbattuto dal male
maledetto, depredato
e fatto oggetto
del guasto e dell’oltraggio,
in mezzo a quanti
l’hanno sostenuto
amici e testimoni
del dato e dell’avuto
garanti del passato
e del rispetto che
una morte anche lurida
propone agli ultimi
sussulti e crudi spasmi.
Orfani più loro, i vivi,
di quel che avrebbe,
lui, potuto essere
ed è ormai perduto
e, insieme, eredi adulti
del vasto capitale
del suo affetto.

 

E, poi, magari
l’anima è immortale:
qualunque strada
prenda, indenne
riesce a scavalcare
l’infinita sofferenza
che ha patita
e a non restare
inerte e lì stordita
dalla confusa infame
faccenda terminale.
Dovunque vada,
che scenda o salga,
comunque non si perde
col suo precipitare
dentro al delirio
in preda all’incoscienza.

 

 

...la lenta discesa
a spirale
verso l’oblìo
la luce che cala
e si appanna
insieme al respiro
il cervello
che muore
ingoiandosi l’io...
  

 

Oltre la sfida finale
e la battaglia persa
nel perseguito intento
di resistenza
all’oltraggio presunto,
sotto la ferrea guida
dell’istinto
di sopravvivenza,
è già iniziato e
avanza lento
il viaggio di ritorno
dalla cima della vita
al punto suo iniziale:
lo stato indefinito
¬ di dimenticanza
oppure inesistenza? ¬
di prima ancora
che fosse concepito.

 

 

Non si sa come
e quando. Però
può darsi che
cessando
non si smetta
di essere, intanto,
e che una nuova
forma di percezione
sia la condizione
che ci aspetta.

 

 

Muore il corpo
ma non muore,
forse, la coscienza.
Cresce e si potenzia
proprio mentre
il suo contenitore
procede sulla via
di una progressiva
decadenza
e, all’atto del distacco,
neppure più si arresta
contro il muro
dell’assenza.
Non cessa affatto
l’attesa del futuro.

 

 

Oh, la moderna morte
occultata depurata
dalla decomposizione
resa esterna finita
sigillata in ospedale
sterilizzata apparente
senza puzzo né rumore
per terrore cancellata
dai discorsi bandita
esiliata sospesa
camuffata tolta di mezzo
per interesse di bottega
privata di valore
eppure lì presente
oltre la pretesa
sua smentita:
argine e taglio
irriducibile demarcazione
a quel che non si piega
e oppone la  possente
interna sua deflagrazione.

 

 

Come tacere e via
far finta di non
vedere la ferita,
temere solo
che sia finita,
lasciati andare
e condannati
alla deriva...
Rimossa e vinta
la paura forte
della sepoltura,
lo spettro della fossa
dove il sé non viva,
guardare in faccia
e non più considerare
una minaccia
o una vergogna
la lama
che recide il filo.
Per riconciliarsi
con i cicli immutati
e riappropriarsi
della propria sorte.
Perché il lutto
chiama la vita,
non altra morte.

 

 

Che tutto cada
morto
per essere risorto,
che venga consumato
per essere rinato.
È il trionfo
della vita perpetuata
mentre si è sepolta.
Come ci è stata
preparata, la strada,
noi la prepariamo
a nostra volta
e moriamo
perché altri viva
a nostro danno
e gloria.
Ogni generazione
è sostituita
dalla successiva:
storia continuata
da altra storia,
serie mai finita.

 

  

Ma la continuazione
invece può finire,
in parte menomata
e poi impedita
comunque demolita
se sono i giovani
a morire
e non c’è più ricambio
a loro nel seguire.
La rotazione cede,
dirottata, alla sua
legge impazzita.

 

 

Si può truccare
ma non di tanto
la partita,
tendere e prolungare
con ogni mezzo
le soglie naturali
della vita.
È un vanto
che costa il prezzo
della ferita
non più rimarginata
e della vena secca
siliconata.
Si spegne la fiammella
inevitabilmente,
si incrosta l’apparato
snervato lentamente
consunto e arrugginito.
Ma la novella
degli dei immortali
fa da invito
e non ha fine
il sogno di rigenerare
la linfa inaridita,
di restaurare il guasto
irreparabile
con il rimedio
intanto del bisturi
e della vitamina.

 

 

Vecchi luminosi
specchi di una forza
estrema del distacco
presenti eppure
già lontani dalla vita
in piedi sull’abisso
senza appigli
testimoni del tempo
e di una sua promessa
eterna ed infinita
senza paure aperti
generosi di sé
fino allo spreco
sangue e respiro
voce del mondo
dolce compagnia
per i pochi figli
dei loro stessi figli
messi sulla via.

 

 

Vecchi ingordi
assetati di potere
attenti a tirare
i fili dell’intrigo
sordi alle ragioni
della successione
attaccati con gli artigli
alle loro posizioni
conquistate a che prezzo
adulterate e rese
possesso personale
mantenute poi
con ogni mezzo.
Specchi di se stessi
ostili o indifferenti
alle attese e ai sospiri
avari di consigli
contenti e convinti
di non essere passati
portati a ritenersi
eterni e ineguagliabili
non più sostituiti
e spinti a ostacolare
il ricambio naturale
e a negare
per pura presunzione
la presenza e i diritti
le qualità dei giovani
figli o non figli
messi in sospensione
tarpati e rifiutati
derelitti. 

 

 

Senza la morte, no,
non ci sarebbe
né sorte né destino.
La vita correrebbe
non più fino
alla soglia definita,
privata di ogni senso
e condannata
ad essere vissuta,
sia pure al passo
lungo dell’immenso,
nell’indifferenza
più assoluta.

  

 

Se so che morirò
e che con me
potrà bruciarsi
l’enorme ammasso
della mia coscienza,
allora l’atto
sarà di fatto
condizionato ma
anche illuminato
dall’evidenza
dell’affrancante unicità
di ogni istante
che passa e se ne va.

 

 

È il pungolo
che incalza e spinge
senza lasciare tregua,
lo stimolo del lutto.
È l’ostacolo
contro cui si tenta
tutto, per prorogare
l’inquietante
dell’improvvisamente
inanimato, la paura,
lo stato più allarmante
della cancellazione,
per differire oltre
l’angoscia ritornante
dell’essere annientato,
per ingannare il tempo
che avanza nel passato e
spranga, stringe forte
le porte della sorte
sua futura.

 

  

Senza la morte
non ci sarebbe niente
né società né storia
non l’avvenire
e neppure la speranza.
È la condizione
necessaria
per la sopravvivenza
della specie.
Anche se non
convince affatto   
la spiegazione,
non è soddisfacente
per le attese umane
rispetto all’atto
di volontà di ognuno
di risultare lui nella realtà
sempre e comunque
quello che rimane.

 

 

L’io all’erta
di fronte a sé
ostacolo inibito
e sulla traccia
del fatto depistato.
Ma buco della chiave,
fessura aperta
verso l’impensato:
che giaccia dentro
il fondo piatto
la profondità e nel
finito stia l’illimitato,
continuamente morto
eppure già rinato.
L’immagine diversa
dall’immaginato.
E, nel gioco di
differenza e identità,
svelato il poco
di verità, nella scoperta
che il mondo noto
non è affatto
l’unica realtà.

 

 

Dal dietro di uno schermo
o un vetro opaco
di grana appena
lattiginosa
si percepisce
l’ombra che frana
la sagoma mai intera
senza contorno
un attimo soltanto
prima che cada
sotto specie vana.
Per tutto quello
che non vedo,
io credo,
qualcosa resterà
di noi. La parte
più sottile
e più leggera
volerà via
e troverà la strada
da cui passare poi
dentro il giardino
nel retro del mondo.
E lì nel fondo cieco
dove la vita
finisce ai nostri occhi
scandita dalla morte,
fluisce un grande
fiume di energia
che spande e che riversa
oltre le porte
l’eterno nel presente.
Lassù sopravvenuta
fino all’altezza
acuta del superno
nello splendore
cosciente della luce
se ne starà sommersa
nel mare di dolcezza
e scoprirà di colpo
la sua pace assoluta.

 

 

 

 


  Paolo Ruffilli Mail: ruffillipoetry@gmail.com