Bibliografia Interviste Antologia della
critica
Paolo Ruffilli è nato a Rieti nel 1949, ma è originario di Forlì
e vive dal 1972 eviso. Si è laureato in lettere presso
l'università di Bologna. Per anni ha collaborato alle pagine
culturali dei quotidiani "Il Resto del Carlino", "Il Giornale",
"la Repubblica", "Il Gazzettino". Fa il consulente editoriale.
Per vent'anni ha lavorato per l'editore Garzanti e oggi dirige
la collana di poesia Biblioteca dei Leoni.
Autore di romanzi e di racconti, è conosciuto a livello
internazionale per i suoi libri di versi tradotti in molte
lingue. Della sua poesia si sono occupati criticamente nomi
come Alberto Asor Rosa,
Luigi Baldacci,
Roland Barthes,
Yves Bonnefoy,
Robert Creeley,
John Deane,
Dario Fo,
Giovanni Giudici,
Alfredo Giuliani,
James Laughlin,
Pier Vincenzo Mengaldo,
Czeslaw Milosz,
Eugenio Montale,
Alvaro Mutis,
Cees Nooteboom,
Giovanni Raboni,
Vittorio Sereni,
Andrea Zanzotto. |
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INTERVISTE
O. Rossani, INTERVISTA a Paolo Ruffilli: L' "avventura esistenziale" e la valenza sacrale della parola. La poesia come viaggio tra amore, dolore e morte Blog Poesia del "Corriere della Sera", 13 dicembre 2021 C. Toscani, Dieci domande a P. R.,
in "Quinta generazione", IV, n. 11-12, nov.-dic.
1976;
E. Fini, Le ragioni del comico, in "Quinta
generazione", XV, n. 153-154, mar.-apr. 1987;
M. Miccinesi, Il frullato verbale quotidiano,
in "Uomini e libri", XXIV, n. 117, gen.-feb.
1988;
G. Linguaglossa, Le domande del Novecento, in
"Poiesis", VII, n. 18, gen.-apr. 1999;
V.L. de Oliveira, Intervista a P. R., in "Insieme",
7, 1999;
A .Mazza, P. R.: Racconto un io morente, in "L'Arena", 2 aprile 2001;
C. Toscani, P. R.: nelle sue poesie l'esperienza
diretta della morte, in "Il nostro Tempo",
13 maggio 2001;
R. Taioli, Dell'infinitamente piccolo, in google,
inattuale.clarence.com
R.M. Grosselli, in "L'Adige", 24 settembre 2001
B. Garavelli, Intervista su Preparativi per la partenza,
in "Stilos", 2003
C. De Michelis, a cura, Domande sulla poesia a P.
R., in "studi duemilleschi"
I.Panfido, in "Corriere del Veneto", 23 maggio 2008
M.T. Indelicati, in "Corriere di Romagna", 12 maggio 2010
A. Milanese, in "L'Arena", 30 luglio 20101
M.T. Indelicati, in "Corriere di Romagna", 16 novembre 2011
E. Brizio, in "Bibliomanie.it,", ottobre-dicembre 2012
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INTERVISTE
DOMANDE SULLA POESIA A PAOLO RUFFILLI
Chi usa la lingua italiana si accorge
ogni giorno di più di quanto ampia sia la sua esposizione
ad altri strumenti linguistici, in primo luogo naturalmente
l'inglese, ma anche a tutte le lingue dell'immigrazione, e
poi a quella vera e propria lingua seconda che deriva essenzialmente
dalla televisione. In che misura queste trasformazioni vengono
accolte dentro il processo della scrittura?
Noi crediamo di parlare una lingua, la nostra lingua. In
realtà "siamo parlati" dalla lingua, oltre
ogni coscienza e volontà. La lingua è una sorta
di flusso energetico, non solo chimico-elettrico, che ci attraversa
i canali cerebrali, venendo da un serbatoio molto più
grande, superindividuale, dove è in continuo movimento,
in espansione (e contrazione) dinamica. E tutti parliamo,
dunque, una lingua sempre e continuamente "nuova",
che raccoglie e fonde in una combinazione risolutiva le infinite
componenti che vi si riversano. La lingua, come tutto nella
vita, è metamorfosi. Solo gli illusi, la vecchia categoria
dei puristi, possono credere di conservare intatta e intonsa
per sempre una lingua, chiudendola magari in un "museo"
e nominando i custodi che debbano sorvegliarne appunto la
purezza, come è stato (per ragioni, certo, storiche)
nell'anomala tradizione italiana dell'Accademia della Crusca.
Ma gli scrittori, se sono per davvero "scrittori",
hanno antenne che automaticamente ricevono le emissioni di
quel flusso energetico di cui parlavo, e il problema per loro
non si pone. Non possono che essere ricetrasmettitori di quella
lingua "in essere": la lingua del loro tempo, che
corrisponde poi alla loro voce (al suo suono e alla sua musica),
cioè a quel che sono nel profondo. La mia è
una formazione soprattutto di linguista, i miei maestri sono
stati Luigi Heilmann, Noam Chomsky, Roland Barthes.
E per me questi sono fatti da sempre "naturali".
Sapendo, naturalmente, che il naturale è sempre un'illusione,
come diceva Barthes, e che tutto, in particolare una lingua,
è sempre frutto di una "deriva", colossale
ma tendente (per la ferrea legge dell'economicità)
al semplice, che è il continuo punto di arrivo.
Una delle impressioni più frequenti che si ricavano
dalla più recente poesia è che esista un formidabile
peso di tradizioni corte o cortissime, vale a dire la maniera
dei poeti di una generazione appena precedente a quella dello
scrivente, che si accompagna alla considerazione di tradizioni
lunghe o lunghissime, il petrarchismo e la sua negazione ad
esempio, ma che siano poco presenti le tradizioni se così
si può dire medie, da Pascoli a Sereni per non fare
che due nomi, e che questo atteggiamento sia di portata più
ampia della moda postmoderna e segnali una diversa relazione
alla storicità. Se le cose stanno così, la poesia
contemporanea ne esce più forte o più debole?
Da sempre, gli scrittori hanno letto gli altri scrittori,
facendone alimento della loro scrittura. Ma sto parlando degli
scrittori che mangiano, digeriscono e risputano fuori in altre,
ulteriori forme quello che hanno ingurgitato. Mi riferisco,
ancora una volta, ai grandi scrittori: gli unici, creativamente,
significativi. Questi non si preoccupano di niente e non hanno
paura di nessuno: per loro conta la lingua che gli "ditta
dentro". Se si va ad analizzare quello che scrivono,
si fa fatica a inquadrarli in una "tendenza" o in
una "scuola": sono anomali e perfino alieni rispetto
al loro tessuto, al quale pure appartengono fino in fondo.
La loro forza paradossale sta proprio qui: sono gli unici
e autentici eredi, eppure non sono per niente "riducibili"
ai loro padri e antenati. La questione delle "tradizioni"
ho l'impressione che sia un problema soprattutto della critica
e di quella italiana, in particolare. Perché da noi
a vincere è stata sempre la ragione della "maniera"
e la maggior parte dei nostri scrittori è fatta in
realtà di "letterati" che cercano di attestare
la qualità del loro lavoro attraverso l'adesione a
canoni più o meno vincenti, oltre che al pragmatismo
di un utilitarismo da epigoni. Non dimentichiamoci che le
mode, pur sbaragliando il campo del loro tempo, sono destinate
a dissolversi nel prosieguo. Dunque, che importanza può
avere (se non per la sociologia della letteratura) che prevalgano
le tradizioni lunghe o quelle corte, il montalismo o il serenismo?
La poesia contemporanea non è né più
forte né più debole di quella che la precede
nel tempo. Anche perché la poesia non è mai
poesia in senso "collettivo".
Come per la traduzione, così anche in poesia si
parte dall'idea che non esistano i sinonimi e che non esistano
due cellule ritmiche equivalenti. L'avanguardia ci ha insegnato
che in effetti non c'è modo di negare la qualifica
di verso a qualsiasi unità scritta che si voglia definire
tale. Ma quali sono per lei i caratteri per i quali un verso
è riconoscibile come verso?
In poesia, per me, la musica è tutto. Lo dico perché,
creativamente, la poesia per me nasce dietro a un impulso
musicale. È un'ossessione musicale mentale quella che
mi trascina dentro un flusso, nel quale poi agiscono e intervengono
altre forze, anche ordinative e razionali. Ma il fuoco della
musica è, appunto, la parte incandescente e quella
che in ogni caso alla fine decide. E decide, intanto, come
ritmo che impone i suoi arresti e le sue ripartenze: determinando
il verso e rendendo il verso riconoscibile proprio come "verso".
È l'orecchio che garantisce per la mia ossessione musicale,
e a lui si sottomette l'intelligenza, anche quando è
appunto razionalmente in disaccordo. Così, per me,
andare a capo è una necessità per così
dire musicale. E resto condizionato da questo mio bisogno
profondo anche quando leggo la poesia degli altri, perché
a leggere è sempre l'orecchio, che si insinua inevitabilmente
sulla pagina come dentro una partitura. Non c'è niente,
si sa, più coerente di un'ossessione e io mi lascio
guidare dalla mia ossessione musicale, senza essere distolto
da chi mi obietta per esempio di andare a capo dopo una preposizione
o una congiunzione... La musica mi ha insegnato che la grammatica
è uno strumento e non una legge. Per me, come diceva
Pessoa, la poesia è lo stato ritmico del pensiero.
Leopardi scriveva quasi sempre in prosa i "contenuti"
di quello che avrebbe poi trasformato in poesia; per molto
tempo, dopo Mallarmé, la parola d'ordine "l'iniziativa
alle parole" ha caratterizzato la modernità. Pensiero
e lingua, cose e sostanza sonora, che cosa viene prima nella
sua scrittura?
Per rispondere, parto da un po' più lontano. L'io,
perdendo sempre più la sua unità interna, ha
fatto l'esperienza del suo frantumarsi (dell'occhio, della
voce
). Che altro possono produrre la vista scomposta,
la voce balbuziente, l'orecchio sincopato? Il "frammento"
è la dimensione autentica della nostra epoca, anche
(soprattutto) creativamente. Nelle arti visive, così
come nella musica e nella letteratura; e non di più
nella poesia rispetto alla narrativa (è Adorno che
definisce la Recherche di Proust "lo sprofondamento nel
frammento"). I moderni vedono, sentono, parlano, scrivono
per frammenti. Con tutto quello che ne consegue sul piano
della "sintassi" (che ha una sua identità
a mosaico o a patchwork), del ritmo (con continue interruzioni
e riprese). I musicisti, da sempre i più precoci, hanno
modulato per primi il "suono" di questa epoca, nuova
per davvero sotto molti aspetti, in primo luogo per una diversa
percezione del tempo. E qui si porrebbe la questione del Tempo,
fondamentale anche in poesia (una frantumazione è anche
corrispondente a una mancanza di continuità temporale
e modifica l'esperienza della memoria, perché il passato
non è più un'entità astratta fuori di
noi, alle nostre spalle, il passato siamo noi e dunque il
tempo verbale per significarlo non è più l'imperfetto,
ma il presente). Non è un caso, infatti, che Proust
lavorasse alla sua Recherche mentre Einstein elaborava la
sua teoria della relatività. Per tutti, intanto, il
tempo cessava come "contenitore" e si rivelava sempre
di più come una delle dimensioni in essere. La trasformazione
evolutiva è ancora in corso (e coinvolge il cambiamento
del nostro stesso cervello), ma con le loro antenne gli artisti
se ne sono fatti interpreti presto, indipendentemente da una
consapevolezza precisa. Del resto, la creatività ha
sempre avuto e continua ad avere una sua parte incandescente
ed eruttiva rispetto a cui poco possono (pur nella loro importanza)
le teorizzazioni. In ogni atto creativo, nella composizione
di forze attive e passive, di conscio e inconscio, di intelligenza
e talento, si realizza un'unità fondante che rende
priva di fondamento una questione come quella se sia prioritario
il significante o il significato, se precedano i contenuti
o le ragioni delle parole, il pensiero o la lingua. Del resto,
io credo nella mescolanza come occasione scatenante e so che
il principio costitutivo della realtà (e, dunque, anche
della poesia) è il principio di contraddizione.
In quale parte della casa scrive abitualmente? Con quale
strumento? In quali ore del giorno o della notte? Ha bisogno
di essere solo? E quando ha scritto una cosa chi è
il suo primo lettore?
Per me, qualsiasi luogo può offrire l'occasione alla
scrittura di manifestarsi, in casa e fuori. Perfino, in movimento:
il treno, l'aereo. Ma non ci sono elementi particolari che
rendano un luogo "deputato" alla scrittura. Non
è questione di ispirazione, nel senso tradizionale:
non subisco il fascino degli scenari naturali. Niente, di
per sé, favorisce o stimola la mia scrittura. No, è
la scrittura che decide lei per suo conto, quando e dove vuole:
urgente di dichiararsi, a volte, ma spesso anche paziente
nell'attendere che io le dia spazio e tempo. Anche per il
tempo, non ho particolari preferenze. Vale tutto e il contrario
di tutto: il giorno o la notte. E questa condizione per così
dire dinamica impedisce l'attestarsi di qualsiasi abitudine.
Né ho bisogno di essere solo o, peggio, isolato per
poter scrivere. Perfino nella confusione e nel caos, che sono
talvolta stimolanti nelle mie esperienze. E, naturalmente,
con tutti i mezzi: la penna, la macchina da scrivere, il computer.
Ben sapendo che uno strumento non è mai solo uno strumento
Da questo punto di vista, sto vivendo una seconda giovinezza
dopo essermi alfabetizzato nuovamente nell'informatica. L'uso
del computer mi si sta rivelando come un'affascinante avventura
piena di scoperte e di linfa vitale. Sì, perché
creativamente questo nuovo mezzo è capace di una dinamica
possente che mai nessun altro aveva avuto prima. Perciò
mi piace molto scrivere al computer, anche se non ho abbandonato
mai la penna e neppure la macchina da scrivere. E, dopo aver
scritto e lasciato depositare per anni le cose scritte, ho
i miei lettori di riferimento. Luigi Baldacci, Pier Vincenzo
Mengaldo, Giuseppe Pontiggia, Alfredo Giuliani, Claudio Magris,
da sempre costituiscono il confronto per quello che scrivo.
Sente la necessità di apprendere a memoria i suoi
poeti, di dire a voce alta i versi, di maneggiare la sostanza
fisica, materiale della poesia? Da quali poeti, su quale strato
di lettura si è costruito il suo bisogno di scrivere,
si è formata la sua idea di poesia?
Non ho mai sentito l'esigenza di apprendere a memoria la
poesia, preferisco leggerla a voce alta. Del resto, ho smesso
da molto tempo di mandare a memoria alcunché, dopo
aver preso coscienza del meccanismo con cui il nostro cervello
setaccia e cancella come "sostanza fisica, materiale"
la quasi totalità di quello che lo attraversa, conservando
in modo molto selettivo solo l'impronta di ciò che
sente "essenziale" (l'essentia è l'astratto,
o l'"estratto", di esse). La memoria inconscia è
il vero grande archivio e serbatoio da cui trarre alimento,
creativamente. E, dunque, non ha senso fare l'elenco dei propri
presunti riferimenti, dei poeti amati, degli scrittori preferiti.
Per la semplice ragione che i padri rifiutati contano molto
di più di quelli riconosciuti. Senza, con questo, voler
togliere importanza a ciò che si è letto e riletto
per la consonanza che vi si sentiva per adesione. Del resto,
il mio gusto per la poesia è nato in una fase ancora
di analfabetismo: la fase quasi preverbale, intorno ai due
anni, in cui si scopre il linguaggio e si gioca con i suoi
materiali di riporto. Quella è stata per me l'occasione
divampante, in cui ho cominciato a soffiare musicalmente dentro
le parole senza più smettere. E lo so, lo sento che
ho imparato allora. Il che non mi fa affatto trascurare tutte
le letture che ho attraversato dopo, e sono stato senza dubbio
un grandissimo lettore. E, in seguito, mi sono occupato da
studioso della letteratura. Però, pur essendomi fatto
un'idea della poesia, quando scrivo poesie me ne dimentico
sempre.
Esiste oggi qualcosa che si possa definire il gusto del
pubblico, in poesia? Se sì, che cosa lo determina?
Il così detto pubblico non ha mai un gusto proprio.
Se mai risponde distrattamente a un orientamento imposto dalla
moda del momento e va dietro al vago impulso che gliene deriva,
che è un impulso disturbato proprio come per i bisogni
indotti, per i quali non c'è mai felicità anche
quando vengano soddisfatti. L'idea che il pubblico ha della
poesia si lega alla più noiosa pratica scolastica dell'esegesi,
del riassunto, della parafrasi, delle note a piede di pagina.
È un'idea di oscurità, di fatica, di inutilità.
Le pochissime persone che, tra il pubblico, si imbattono poi
per caso nella poesia restano stupite di incontrare qualcosa
che in realtà non conoscevano affatto e che non assomiglia
all'idea scolastica che gli era rimasta addosso. Del resto,
non scrivo mai pensando al lettore o mosso dal desiderio di
accattivarmelo, meno che mai in poesia. Sento la poesia come
un dettato che sfugge a qualsiasi strategia comunicativa.
Il che non vuol dire, evidentemente, l'adesione al codice
cifrato. La conoscenza appartiene sempre al mondo del singolare.
Anzi, quanto più appartiene al mondo del singolare,
tanto più ha valenza universale. Ma il parteciparvi
da parte del lettore necessita di una scelta individuale,
con una forza attiva decisiva. Il lettore deve decidere di
entrarvi e lo farà, naturalmente, avendo avvertito
un input rispetto al quale provvederà lui stesso a
realizzare l'empatia. Ogni percorso di gnosi è sempre
una pratica esoterica.
La forma generale di comunicazione che determina il nostro
modo di stare nel mondo, oggi, accoglie dentro di sé
in misura sempre maggiore elementi di astrazione, di concettualizzazione,
di intellettualizzazione, e il principale riflesso di tale
stato di cose nell'arte più in generale è un
attenuarsi progressivo del suo legame col sensibile, coi dati
dei sensi, con la sostanza materiale dell'esperienza. Attraverso
quali strumenti reagisce la scrittura poetica a questa pressione?
È compatibile ad esempio un tale contesto con l'esistenza
di quella parte dell'esperienza poetica che chiamiamo Lirica,
con le sue peculiarità formali e il suo bisogno di
autonomia soggettiva, che niente oggi sembra autorizzare?
L'uomo ha avuto tendenza all'astrazione fin da subito, appena
comparso sulla terra. È questa la sua forza, ciò
che gli ha consentito di arrivare dove è arrivato,
senza essere cancellato da quel mostro crudele che è
la Natura. E proprio perché è un animale naturalmente
(o innaturalmente, se si preferisce) capace di simboli, diventa
artifex e comincia ad impiegare i suoi artifici per difendersi
e conservarsi "artificialmente" dentro una natura
che lo schiaccia e lo cancella. L'uomo primitivo è
già un intellettuale istintivamente e si sforza di
ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla
e dominarla. I linguisti lo sanno che l'elaborazione del linguaggio
risponde proprio a questa spinta inconscia del dare pronuncia
musicale alle "parole magiche" per entrare dentro
la realtà e impadronirsene. E il linguaggio, come tutto
il resto, nasce proprio dalla formidabile tendenza dell'uomo
all'astrazione. Dunque, parlare di progressiva concettualizzazione
e intellettualizzazione è parlare di un processo comunque
in corso da sempre, coincidente con la "naturale"
(o innaturale) evoluzione del nostro cervello, che si è
strutturato linguisticamente proprio per far fronte alla situazione
e che elaborerà altre soluzioni per continuare a far
fronte alle situazioni che cambiano. Ecco, non dimentichiamoci
della metamorfosi in atto che è la vita. Solo ciò
che si trasforma è destinato a durare, dunque perché
pensare che qualcosa possa conservarsi rimanendo quello che
era. Anche la poesia. Già Leopardi osservava che non
è possibile, per i moderni, non ragionare scrivendo
versi. Appunto. Che male c'è? La poesia è avventura
mentale. Continua ad esserlo. E non si preoccupa di nient'altro
che di essere fedele a se stessa. Senza curarsi troppo della
"sostanza materiale" dell'esperienza, forse perché
oggi ha la coscienza che la materia è energia, anzi
energia decaduta.
da "studi duemilleschi"
DELL'INFINITAMENTE PICCOLO
Anni fa sono venuto a contatto con la tua poesia partendo
da Camera oscura, la tua ultima raccolta, e poi, in un cammino
a ritroso, ho scoperto le altre sporgenze del tuo paesaggio
poetico. Mi colpì la tua inclinazione ad una scrittura
di frammenti (seppur costituenti una storia ), di nuclei di
senso apparentemente autonomi ma in realtà sottilmente
e direi saldamente collegati. Scrivevi nel componimento conclusivo
della raccolta: "
un segno / il dato, ma non /
memoria o nostalgia, di ciò che è stato"
(Camera oscura, Garzanti, p. 97). La memoria che rivisita
ed esplora ciò che è stato, non sembra tuttavia
solo interessarti come mero luogo di seduzione affettiva ma
- direi - prioritariamente di conoscenza, come se si trattasse
di preservare dall'oblio e dalla cancellazione e quindi di
rendere ancora conoscibili e visibili, strati e lampi di verità
inscritti nella tua vita. Come in una fotografia. E' così
?
Sì, hai colto. La dimensione del frammento e il suo
superamento sono facilmente spiegabili. Da una parte, c'è
la realtà del nostro tempo: ogni epoca ha la sua voce
e la nostra è all'insegna del balbettamento per la
frantumazione dell'io. Dunque non è un caso che la
poesia e la narrativa siano al passo del frammento. Dall'altra
parte, però, c'è l'insoddisfazione per la condizione
asmatica e balbettante e di qui la necessità che avverto
di comporre i frammenti in un insieme più ampio, in
un organismo ricomposto come il mosaico con i suoi tasselli.
Anche sulla memoria come conoscenza sono d'accordo. Infatti,
per me, la dimensione elegiaca non esiste proprio. Non mi
volto indietro a riconsiderare con nostalgia quello che non
c'è più. La mia esperienza della memoria è
in essere, cioè come realtà presente, insieme
diacronica e sincronica. Siamo quello che siamo stati e che
sono stati altri prima di noi. Ecco la mia ottica. In una
chiave di gnosi che, nel mio caso, è irrinunciabile
anche in poesia.
La tua citazione di Roland Barthes, anteposta al libro, pare
porsi come un viatico affidato al lettore: "Per voi,
non sarebbe altro che una foto indifferente (
) per voi,
in essa, non ci sarebbe nessuna ferita". Tramite le parole
di Roland Barthes, il lettore è avvertito della significanza
per te dei reperti portati alla luce, della loro incidenza
nella tua vita, della non neutralità di quelle scoperte.
Le cose ti parlano, ma non parlano per tutti. La conoscenza
poetica appartiene al mondo del singolare, dell'individuale,
non è facilmente estensibile né generalizzabile.
In fondo tu non ti poni il problema di far partecipare l'altro,
il lettore al tuo vissuto ma solamente di manifestarlo, di
dirlo. Si può dire - paradossalmente - che non cerchi
l'empatia ad ogni costo e che forse questa neanche ti interessi?
L'empatia non mi interessa, no. E la ragione è quella
appena dichiarata di un interesse per la gnosi. Non scrivo
poesia pensando al lettore o mosso dal desiderio di accattivarmelo.
Sento la poesia come un dettato che sfugge a qualsiasi strategia
comunicativa, il che non vuol dire, evidentemente, l'adesione
al codice cifrato. La conoscenza appartiene sempre al mondo
del singolare, anzi, quanto più appartiene al mondo
del singolare, tanto più ha valenza universale. Ma
il parteciparvi da parte del lettore necessita di una scelta
individuale, come una forza attiva decisiva. Il lettore deve
decidere di entrarvi e lo farà, naturalmente, avendo
avvertito un input rispetto al quale provvederà lui
stesso a realizzare l'empatia. Ogni percorso di gnosi è
sempre una pratica esoterica.
La tua poesia mi pare attraversata da una forte istanza di
salvazione terrena (la fotografia in questo senso lo è),
nascente dalla constatazione che tutto si consuma, sfugge,
evapora. Sempre in Camera oscura, in quella che potrebbe fungere
quasi da dichiarazione programmatica e che non a caso è
scritta in corsivo, come per evidenziarne la paradigmicità,
scrivi di una "cifra data / e persa, misteriosa, di un
essere a / cavallo, dentro e / fuori" e di un "tempo
fulminato" (CO, p. 15) . Allora è forse questa
cruda evidenza della incombente dispersione che ti ha avvicinato
al genere del "poema familiare", come per certi
aspetti potrebbe essere Camera oscura?
L'esperienza della realtà in movimento inarrestabile,
da che mondo è mondo, ha spinto l'uomo verso l'artificio
del fermare e del bloccare, per riconsiderare, analizzare
e in fin dei conti conoscere. La fotografia, in particolare,
realizza il sogno più antico dell'uomo: quello di catturare
l'attimo fuggente e di consegnarlo a una durata appunto artificiale,
che riposa sul vuoto. L'arte, come sviluppo raffinato dell'artificio,
ha a che fare da sempre con questo mistero del tempo. E l'esperienza
del tempo si è fatta via via sempre più puntiforme:
il modo di intenderlo e di viverlo è altro e perfino
alieno rispetto al passato. Del resto, ormai lo sappiamo,
il tempo non è un contenitore ma una delle dimensioni.
Perciò noi stessi siamo e ci sentiamo per così
dire fotografici, nel senso di quella realtà puntiforme
di cui si diceva. Sentiamo che l'attimo, ogni attimo, nel
suo battito di ciglia contiene tuttavia l'intero, è
il resto dei tempi. E' un'esperienza, questa che stiamo vivendo,
destinata a modificare radicalmente il nostro cervello (che
continua, naturalmente, l'evoluzione della specie). Alcuni
mutamenti sono già davanti ai nostri occhi, anche se
non ce ne accorgiamo. Per esempio, proprio la così
detta memoria. Tanto è vero che (mai niente avviene
per caso) stiamo trasferendola nel computer. Non è
l'evidenza della dispersione incombente ad avermi avvicinato
al genere del poema familiare, ma il desiderio ancora in gran
parte inconscio di spiegarmi la continuità che passa
attraverso il sangue.
Questo tema del "poema familiare" ti avvicina ad
un poeta come Giorgio Caproni e al suo "romanzo"
di Annina, Seme del piangere, un autore - credo - che non
ti sia estraneo
ma penso anche al romanzo in versi La
camera da letto di Bertolucci. Come ti poni di fronte a questi,
per certi aspetti, "padri fondatori"?
Senza dubbio, avevo letto sia Caproni che Bertolucci. Hanno
due modi di fare romanzo familiare completamente diversi.
Quello di Bertolucci, anche se più recente, appartiene
al passato (sia detto con tutto il rispetto). E' elegiaco,
cioè antiquariale. Il modo di Caproni invece usa la
voce sincopata di oggi, procede per impulsi e strappi. La
lettura di Caproni è stata molto importante per me,
anche se me ne sono reso conto più tardi. Anche per
me, in poesia, la musica è tutto o quasi. E anch'io
inseguo un'ossessione musicale che mi gira per la testa e
alla quale istintivamente finisco con l'adeguarmi.
Che importanza ha per un poeta e per te far riemergere la
biografia, la microstoria individuale, pur se allargata allo
scandaglio di più generazioni? Si può dire che
l'io si costuisce nei suoi nessi - come scrivi in un tuo frammento
- in un viluppo di nodi e che per meglio vederlo in questa
nervatura, occorra uno sguardo profondo, un obiettivo, parola
tratta dal linguaggio fotografico, e a cui fai ricorso.
La biografia per me importante è quella interiorizzata.,
cioè sottoposta al vaglio di quell'operazione di artificio
che rende possibile la conoscenza. Dunque, lo sguardo non
può che essere profondo, nel percorso dalla segreta
oscurità dell'io alla ricerca di senso e ragione. Bisogna
andare oltre l'abbaglio dell'evidenza; perché la luce,
anche se è fondamentale per il risultato, quando è
troppa, maschera e cancella e in ogni caso ha necessità
dell'ombra, della camera oscura. Per la poesia vale lo stesso
metodo che per la fotografia: la messa a fuoco è fondamentale
e, un attimo prima o dopo, l'effetto è la sfocatura.
Il tuo ritorno alla microstoria individuale, ci presenta un
tessuto solo apparentemente ordinato. L'accadere ci sormonta,
deborda da noi, che solo occasionalmente ci poniamo come presenza
regolatrice. Gli eventi sono quasi sempre fuori dal registro,
governati da una sregolata casualità, come sembri voler
dire in questi versi: "Sfogliandone i ricordi, / sempre
ho pensato / a quel che era e che / poteva non essere stato,
/ al caso a cui si lega / ogni storia" (CO, p. 73).
Certo, l'accadere ci sormonta, deborda da noi. E il moto
prevalente sembra quello di deriva. Le circostanze, gli incontri,
i deragliamenti ci appaiono nel segno della casualità.
Eppure il caso non esiste: tutto è risultanza di una
combinazione, si ricompone un ordine anche nel disordine più
appariscente. E' un effetto della poesia, del suo lampo/shock,
la scoperta che il mondo così detto noto non è
affatto l'unica realtà. Un'illuminazione improvvisa,
pur nella contraddizione.
"Reperto del dolore", scrive Raboni riguardo alla
tonalità della tua poesia, nella postfazione a Camera
oscura. Ancora Raboni accenna ad un tuo itineraio che va dal
riconoscimento o svelamento della ferita alla sua cicatrizzazione
nelle maglie del linguaggio. Ora io vorrei chiederti se davvero
per te il linguaggio poetico assolve, ed eventualmente in
che modo, a questa funzione di cicatrizzazione, in un certo
senso di terapia, nei confronti della crudezza e asperità
del dolore.
Sì, il linguaggio della poesia assolve alla funzione
di cicatrizzazione. E non solo il linguaggio della poesia.
La parola è forse la più antica terapia che
l'uomo abbia perseguito riguardo alla propria salute profonda,
quella mentale. Già ai primordi del linguaggio, quando
il suono cantilenato era parola magica e scaramantica. La
poesia conserva questa virtù antichissima. La scrittura
in generale è una forma di autoanalisi di grande qualità.
Perché la parola arriva là dove non si riesce
a giungere con nessun altro sistema, né bisturi né
strumento d'altro genere.
"La parola, per me, / veniva da distante. / Un a priori,
quasi, / l'avvertivo. Un eccitante. / In un processo in /
qualche modo inverso. / Nel darle per riscontro / una realtà
che invece, /più toccata e presa, più / sfuggiva
inconsistente / ai cinque sensi. / Con l'effetto di essere
/ lanciata contro un corpo / pronunciato e, nel / suo dirlo,
di colpo / riafferrato"(CO, pp.42-43). Questi versi di
Camera oscura, compaiono anche in un'altra tua precedente
raccolta, Piccola colazione, come ad indicare un nodo irrisolto,
un grumo di permanenza. Tu parli della parola come di un a
priori, di un suo emergere dalla lontananza, prima di imbattersi
nella durezza delle cose. Pare esserci uno iato tra parola
e realtà, nel senso che la parola non ne asseconda
sempre il divenire, ma deve farsi spazio, lottare per emergere,
come in un agone.
Pur nell'intermittenza, per me tutto si compie nella continuità:
nella vita, come nella poesia. Per questo capita di ritrovare
singoli frammenti o tratti più lunghi qua e là
nei miei diversi libri. I versi che citi, poi, sono portanti
rispetto all'idea, anzi all'esperienza, che ho della parola.
Fin da piccolo la parola mi arrivava da lontano e aveva una
portata e una pregnanza ben superiori alla così detta
realtà. Una realtà modesta e mortificata rispetto
alle aspettative suscitate dalla potenza espressiva delle
parole. Parole sentite e vissute come eccitanti, stupefacenti
sonori. Senza alcun disprezzo per la realtà, però;
e senza nessuna forma di schifiltosità rispetto alle
cose del mondo, meno che mai da collezionista o da esteta.
Non sono mai stato né l'uno né l'altro, né
in relazione alle cose né in relazione alle parole.
Se mai sono uno che si affida alle parole per cercare il senso
delle cose.
Qual è per te "l'altra faccia del presente"(CO,
p. 77), di cui parli in una tua poesia? E' solo uno specchio,
nel quale in qualche modo e linearmente si rifrange il passato,
oppure è uno scavo, un'intercapedine, una piega o un
sistema di pieghe, un terreno corrugato denso di zone d'ombra,
di chiaroscuri, di pause, di equivoci, verso cui la sonda
della poesia si dirige a tentoni, senza una preordinata verità?
Le due facce cui alludevo in quella poesia sono le due parti
coincidenti e contraddittorie della realtà: la sua
apparenza netta, abbagliante, e il suo senso oscuro, misterioso.
La poesia, con il suo valore di ossimoro, si sforza di dare
pronuncia alla coincidenza degli opposti e a quel principio
di contraddizione che oggi perfino per la scienza è
fondante la realtà.
Gli oggetti o il "sistema degli oggetti" - per riferirci
alla formulazione di Jean Baudrillard - di cui è popolata
la tua poesia, potrebbero essere pretesti, occasioni virtuose
per portare in superficie ciò che più che ti
sta a cuore
Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto
che la realtà, per me, è in fondo tale solo
se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno.
Ribadendo tuttavia che non c'è nessun disprezzo della
realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi
della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie
non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare",
"speculatico", "specola", rimanda a specchio,
cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il
guardare durativo, focalizzato e fisso.
Si è parlato, non so fino a che punto rispondente alla
tue intenzioni, di una tua "poetica delle cose".
Per esempio nel Diario di Normandia - un testo a te particolarmente
caro - è frequente il ricorso alla registrazione ed
elencazione dell'esistente. Trasmetti molte informazioni.
Volevo in tal senso richiamarti l'esordio della pagina datata
diaristicamente 8 agosto: "Ombra densa / per le ortensie
di Trouville. / La scia di umido / non si disperde neppure
a mezzogiorno./ C'è odore di torte e di biscotti /
sulla strada del passeggio. / La coppia al tavolino / è
silenziosa: / bevono liquori e / mangiano frutti di gelatina.
/ Uno ha lineamenti regolari, / senza barba, e la pelle /
con rapide striature, / tormenta con la mano / l'involucro
della confettura. /L'altro è più giovane / e
sorride al cameriere / tutte le volte che passa, posa le dita
tra i dolci / e si lascia sfiorare, distratto" (Diario
di Normandia, Amadeus, 1990, pp. 9-11). A me sembra comunque
che il tessuto informativo trovi un momento di risoluzione
negli squarci meditativi, veri e propri topoi della mente
che, messi anche graficamente tra parentesi, tu intercali
alle ampie stanze dove il reale si addensa e concentra: ("Ti
accorgi all'improvviso / che le cose riescono a distrarti,
/ a tratti per lo meno, dall'ansia / e a porre tra te e la
vita / lo spazio necessario a contemplarla", DN, p. 13).
Non è forse proprio lì che si cela il nervo
profondo della tua poesia, in questo tuo inclinarti e protenderti
verso di esse per leggerne i segni, che non sono poi solo
i profili oggettivi, gli spessori, insomma la loro fisicità?
Come ti dicevo, la realtà per me è realtà
pensata. Dunque, hai ragione a ritenere che il tessuto informativo
trovi un momento di risoluzione in quelli che chiami "topoi
della mente". Ciò non di meno, non avverto come
più importanti questi rispetto a quello. C'è
una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione,
usando un termine musicale. Perché, come ti confessavo
più sopra, in poesia per me la musica è tutto
o quasi.
Parlando adesso di Piccola colazione, la tua raccolta del
1987, cominciamo dall'origine di questo titolo e a che cosa
pensavi quando l'hai formulato. A tal riguardo, per esempio
Giuseppe Pontiggia, nella sua prefazione al libro, ha avanzato
un'ipotesi, partendo dalle Collationes Patrum di Cassiano
e dal rituale benedettino del "pasto leggero" che
seguiva la compieta.
C'è una scena indimenticabile in "Amarcord"
di Fellini: il pranzo a casa di Titta. Può servire
a spiegare il mio titolo. C'è aria di tempesta attorno
al tavolo. E niente può rappresentare la precarietà
meglio di quell'incontro di persone, e insieme, la decisiva
connessione dei loro destini. Tutto ruota lì intorno:
inquietudini, risentimenti, delusioni, speranze, affetti,
paure. Nel ripetersi della "piccola colazione" quotidiana
di cose e di parole. Così, tra opposte pulsioni. Tra
riso e pianto, che convivono; che sono, in fondo, lo stato
d'essere. Lì dove idee, sogni e pensieri scivolano
di mano ai presenti e il dramma si definisce nei suoi risvolti
comici. In questo senso "piccola colazione". Nel
senso del frullato verbale quotidiano che ci vede agenti agiti
e mangianti mangiati. In quella traiettoria contraddittoria
di cui ti parlavo, dall'oscurità dell'io al senso e
alla ragione, e viceversa. E, dunque, anche nel senso di un
cannibalismo che spinge quotidianamente al rimasticamento
di ogni pezzetto di sé.
Piccola colazione è poesia prevalentemente
di "interni", la casa e le vicende che entro quelle
mura si consumano, ma anche gli anfratti poco illuminati della
mente e della coscienza. Qui, nel tuo ritorno alle cose e
alle ombre, si celebrano i riti di iniziazione alla vita,
alla corporeità, alla scoperta e al riconoscimento
di noi stessi. Questo mondo di ambienti e di oggetti sembra
a volte starti stretto, soffocarti ma anche contenerti e proteggerti,
come una nicchia di senso, la cui perdita o annullamento determinerebbe
la caduta dell'identità e del tentativo di cercarla.
Forse l'identità sta nel nostro coincidere con le cose,
nel portarcele addosso come la pelle.
E' proprio come avviene per la casa e prima ancora per l'utero
materno. Il chiuso ti protegge e ti consente di crescere,
ma anche ti contiene e ti costringe. E' una fortezza e una
prigione. Ma bisogna fare esperienza degli interni per conquistare
gli esterni. E' così anche nel percorso della conoscenza,
dal dentro al fuori, dal buio alla luce; transitando per i
passaggi e attraverso le ombre, le une e gli altri decisivi
per lo sviluppo, Ancora una volta come per la fotografia:
la camera chiusa e oscura, necessaria per far conquistare
luce e colori ai negativi. L'essere costretti nel chiuso e
nel buio come molla verso l'aperto e la luce. Ogni azione
determina una reazione uguale e contraria. E, in questo movimento,
la ricerca dell'identità: inarrestabile e mai compiuta,
ma per continui aggiustamenti ragione stessa di vita.
Tu scrivi in versi assai efficaci: "E' la cancellazione
/ progressiva delle / presenze care e note, / il conto che
comincia / a non tornare. Il / margine sempre più /
sottile, man mano / che si fanno falle /e vuoti tra le fila"
(Piccola colazione, Garzanti, 1987, pp, 112-113). C'è
quindi un pericolo incombente di straniamento, di perdita
e di lutto nel cedere delle cose e delle persone, nell'aprirsi
di crepe in questo sostrato?
Noi stessi e la realtà intorno a noi, tutto è
parte di un colossale processo di metamorfosi. E' un continuo
modificarsi apparentemente insensato e comunque tremendo.
Si è portati a vederlo inevitabilmente nel senso della
perdita e del lutto, cioè a proprio danno, nella paura
e nel dolore. Ma a me con gli anni è capitato di superare
questa condizione, che già in "Piccola colazione"
(e, analogamente, in "Diario di Normandia")
si era comunque stemperata e fatta più distesa, nello
sforzo di distacco e di messa a fuoco. Oggi (molta acqua,
naturalmente, è passata sotto i ponti), questa opera
continua di cancellazione che chiamiamo morte, la sento piuttosto
come fase di passaggio: non meno misteriosa e inquietante,
ma aperta e non cupa.
I dialoghetti, con i quali fai parlare l'io nascosto negli
altri, intercalati al tessuto della narrazione, sembrano ancore
di salvataggio, tracce affioranti di un flusso carsico, isole
riemergenti dal buio, dall'anonimo
Sì, è un gioco di sponda, un effetto di riverberazione.
Il mio modello è il libretto dell'opera buffa, dove
appunto in mezzo a descrizioni, commenti, illuminazioni liriche,
ci sono anche dialoghetti aerei e frizzanti. Dialoghetti tanto
più rivelatori nelle loro battute smozzicate, quanto
più apparentemente incoerenti e divaganti. Il libretto
d'opera, del resto, è un modello molto sofisticato:
realizza allegramente la commistione di generi letterari (il
romanzo, la commedia, perfino il saggio). A me, creativamente,
piace la mescolanza dei livelli e dei punti di vista
Nella sezione Prodotti notevoli, il riaffiorare della coppia
genitoriale (padre potente - madre matrice) conferma le atmosfere
di un "romanzo di formazione", ma poi il finale
spazza via ogni ancora consolatoria, come se il lungo cammino
attraverso il labirinto della propria microstoria, fosse stato
vano e sfociasse nella constatazione della cruda evidenza
del vuoto, del nulla pulviscolare: le parti in qualche modo
si confondono e mischiano in una chiave di ambivalenza, in
un chiasma, direbbe Merleau-Ponty, dove noi "parlanti"
siamo anche "parlati", siamo noi e il contrario
di noi. Tu scrivi, congedandoti, "Eppure, intanto, /
arresi all'evidenza / di andare navigando / alla deriva"
(PC, pp. 123). Ma questa deriva non mi pare una soglia nichilistica,
semmai la disincantata presa d'atto di una condizione e quindi,
forse, un monito rivolto prima di tutto a te stesso.
Qualsiasi sia la nostra storia, poggia sul vuoto. Nel senso
che ciascuno di noi, balzando fuori da se stesso, deve combattere
la sua battaglia con il vuoto. Non c'è consolazione
ma non c'è neppure disperazione. Meno che mai nichilismo.
Affrontare il nulla non significa ridurre il tutto a niente.
Ma il nulla è l'altra faccia della vita, come ci dice
l'antica tradizione sapienziale. E il fatto di andare intanto
navigando alla deriva non vuol dire che non si arrivi da qualche
parte. E' la straordinaria forza della contraddizione che
si impara con l'esperienza, quel principio di contraddizione
costitutivo della realtà di cui si parlava sopra.
In un tuo intervento teorico parli di affidarti alla legge
dell'inversamente proporzionale, ("Un'indicazione di
marcia", in La parola ritrovata, Marsilio, Venezia, 1995,
pp. 135-139), per cui il grande è attingibile nel piccolo,
nel semplice, nel tono sottovoce, smorzato, chiaroscurale
del linguaggio, nelle sue sacche interne e mediante il quale
- come dici - il sublime, a cui non rinunci, è forse
solo davvero pronunciabile. La tua visione del sublime, rinvia
forse anche ad un diverso strumento per vederlo e osservarlo,
una sorta di cannocchiale alla rovescia che riduce, rimpicciolisce
Lo dicono anche i fisici che l'unico modo per l'uomo di trovare
l'infinito è di cercarlo nel piccolo. E, nei loro laboratori,
cercano l'infinitamente grande nell'infinitamente piccolo.
Il segreto, del resto, è lì: in quel vincolo
estremo che tiene assieme particelle minime che si attraggono
perché si respingono. Spezzare quel vincolo, lo sappiamo,
scatena un'energia violentissima. Quanto più contenuta
è la compressione, tanto più incontenibile è
l'esplosione. Insomma, per dirtelo con una battuta taoista,
il mondo empirico e quello metafisico sono tutt'uno. E' un
ossimoro molto stimolante anche per la poesia.
In una tua poesia pubblicata in una plaquette collettanea
(Carte da Levante, Portofranco, Taranto, 1995), scrivi del
"contatto stabilito" e "dell'ansia sciolta
/ con la chiave girata, / dietro, nella porta"(p. 10).
Una tonalità forse nuova o altra rispetto alle conclusioni
di Camera oscura, dove nelle pagine di chiusura affiora la
figura del naufrago (p.94) e del movimento della deriva. Su
quali persistenze ed eventualmente, nuove aperture, si muove
oggi la tua ricerca di uomo e di poeta?
Il movimento è ancora e sempre quello di deriva (come
potrebbe essere diversamente?), ma nella serena condizione
della vita che avanza e si trasforma rimanendo se stessa.
Forse mi piacerebbe dire che è l'effetto di una saggezza
accumulata con l'esperienza
Magari lo fosse! Ma il
saggio, in ogni caso, sa bene di non sapere un bel niente
della vita e sulla vita. Eppure sente di vivere meglio e in
modo più intenso. Mettiamola così. Per il resto,
in questa decina d'anni dall'uscita di "Camera oscura",
ho lavorato molto su tre filoni principali, chiamiamoli così
(tre esperienze per me interessanti e decisive): il morire,
affrontato soprattutto in un lungo poema; l'essere padre,
cioè uno che trasmette la vita, in una specie di pedagogia
involontaria in versi; e l'incapacità di aderire alle
cose del mondo, in una raccolta in tre o quattro tempi.
A cura di ROBERTO TAIOLI
in google, inattuale.clarence.com
INTERVISTA SU PREPARATIVI PER LA PARTENZA
Più che racconti, sono interviste
commentate. I diciotto personaggi di questo libro, che insieme
formano una "piccola piramide di vicende insolite"
dice l'autore, raccontano se stessi sollecitati da un visitatore
curioso, il personaggio che dice io e che in uno dei testi
rivela di abitare a Treviso, proprio come Paolo Ruffilli.
E intanto si autocommentano, con distacco, con un amore verso
se stessi che non è narcisismo, ma l'indulgenza di
chi ha vissuto molti decenni e dall'alto di questa pila di
anni guarda la propria vita già in gran parte delineata.
Ecco quindi questi personaggi, femminili e maschili, parlare
di sé, delle proprie sconfitte anche, con una serenità
che si trasmette al loro ascoltatore, costringendo a pensare
che le loro scelte di vita coraggiose al punto da sembrare
assurde siano invece le più naturali e giuste. La donna
che accetta il gioco dei cacciatori di avventure erotiche
mettendosi un "lucchetto al cuore", lo scrittore
misogino che scopre l'unica ragione di vita nell'amore per
la moglie, il giudice che va a vivere a piano terreno con
le porte sempre aperte per non doversi più sentire
forzosamente al di sopra dei suoi simili.
Forse è più un viaggio nel labirinto delle proprie
curiosità, delle proprie ossessioni, delle scoperte
di una vita vissuta generosamente, e che quindi ha regalato
generosamente, a sua volta, in consapevolezza, in comprensione.
L'insieme produce l'effetto di indulgenza verso gli errori
che chiunque in certe circostanze avrebbe potuto commettere,
indulgenza, curiosità e infine amore verso la "divinità
della vita" che continuamente scorre, immutata, in viventi
forme molteplici.
Lo stile è duttile, rallenta e accelera adeguandosi
alle emozioni, precipita insieme ai personaggi nei burroni
delle loro scoperte, e lascia il lettore senza veramente lasciarlo,
ogni volta con l'ultima brevissima frase che è folgorazione
improvvisa, commento definitivo o piuttosto apertura verso
nuove scoperte.
Paolo Ruffilli narratore è una scoperta, ma forse la
scrittura narrativa è sempre stata parallela a quella
poetica.
Sì, ho sempre scritto anche in prosa. Ma è
una distinzione che sento forzato, forzosa
Per me la
scrittura è scrittura sempre tout court e non ho mai
preso sul serio la divisione in generi codificata nella storia
della letteratura. Del resto, i miei scrittori preferiti (per
esempio, Dante o Leopardi o Sterne, per non parlare di quelli
del nostro tempo come Proust o Joyce o Musil) sono navigatori
di tutti i mari contemporaneamente. E' sempre l'avventura
più straordinaria, il sogno leonardesco di essere tutto
nel niente, grandi nella piccolezza
come i miei protagonisti
appunto.
Questi diciotto personaggi che non obbediscono al buon
senso borghese assassino della vitalità sono tutti
di invenzione. Perché questa scelta?
Perché io invento sempre, anche quando scrivo di me
o di personaggi reali. Sento che, per essere davvero capaci
di capire quello che ci riguarda nel profondo, bisogna scegliere
di affidarsi all'immaginazione. Guai limitarsi alla pura riproduzione
di quello che chiamiamo la realtà oggettiva. Quell'oggetto,
come evidenza, è solo apparenza o abitudine e stato
di comodo
Immaginare significa entrare dentro l'immagine,
per scoprire appunto la sua vera essenza. L'ho imparato con
gli anni, tra l'altro anche come cultore della fotografia,
scoprendo che la fotografia è una pratica magica (ancora
e sempre la radice mag dell'immaginazione) con la quale catturiamo
l'attimo fuggente. Ma l'attimo fuggente che noi fissiamo sulla
superficie dell'istantanea riposa sul vuoto, sul niente. E'
solo lo squarcio attraverso il quale si può entrare
nel retroscena dove riposa appunto la verità che cerchiamo.
E il salto dentro quel varco ci obbliga all'assunzione delle
nostre responsabilità. Perché dobbiamo scendere
in piena libertà dentro il mistero di cui è
fatta la vita in tutti i suoi aspetti.
Il libro non si può definire semplicemente una
"raccolta di racconti": si legge come un romanzo,
reso compatto com'è dalla figura dello scrittore-cercatore
d'anime che va a stimolare con domande insistenti le riflessioni
dei personaggi che incontra. Con quali criteri hai scelto
l'ordine dei testi, come hai costruito la tua "piramide"?
Nella mia indole, prima ancora che nell'esercizio della mia
creatività, c'è questa duplicità: da
una parte la consapevolezza della frantumazione di quello
che siamo, del nostro io, della nostra coscienza, di tutto
quello che ci riguarda e che costituisce la nostra vita, e
dall'altra la scoperta ogni volta sorprendente che c'è
un filo rosso superiore che organizza e ricompone in un insieme
compatto la marea di frammenti e pezzetti in cui siamo apparentemente
dispersi. Così, quando scrivo, sento istintivamente
che le mille parti che si vanno materializzando costituiscono
inevitabilmente i tasselli di un ordine compiuto. Intendiamoci,
uso la testa nel suo insieme quando scrivo, anche l'intelligenza
e la ragione, non solo il sesto senso. Ma è un fatto
che per me diventa naturale dispormi sempre dentro un organismo,
che è in fondo la piramide di cui parlo nel Prologo.
Quasi tutti i personaggi sono "sul punto di partire"
perché sono già anziani e stanno facendo un
bilancio della loro vita. A quale partenza si preparano in
realtà?
La vita mi si è configurata nel tempo come una grande
avventura di movimento, a partire dalla pancia di nostra madre
e già prima di essere vivi nel percorso dello spermatozoo
lanciato verso l'obiettivo dell'ovulo. Mi sento sempre sul
punto di partire e il viaggio, magari dentro una stanza, è
prima di tutto un viaggio mentale: di chi cerca e insegue
le ragioni della vita che gli sfuggono. E' il viaggio della
conoscenza, di cui ha sempre parlato la tradizione sapienziale.
Il viaggio ai confini di se stessi, magari tra incertezze
e paure, attirati a guardare dentro l'abisso che c'è
dentro e fuori di noi. E, da viaggiatori, nasce e cresce il
sospetto che anche là, all'estremità del passaggio,
la strada debba continuare. Chissà come e verso dove
Nel libro ci sono passaggi che spingono a pensare: sui
rapporti amorosi fra uomini e donne, sulla crisi della paternità,
sulla sensazione dei giovani di essere "orfani del mondo",
ma anche sull'origine e la fine della vita, sull'anima. Quanto
ha pesato sulla scelta di questi temi, che sono per lo più
domande senza risposta, l'esperienza personale?
Come dico nel Prologo, il coraggio dell'immaginazione riesce
a farci vedere dentro il buio. E, nella mia esperienza personale,
vedendo mi sono accorto che non è possibile andare
avanti senza farsi parte di tutto ciò che abbiamo in
comune. Perciò come non preoccuparsi di superare tutte
le distanze che ci separano tra di noi, uomini e donne, padri
e figli, giovani e vecchi, bianchi e neri
Scoprendo
di essere parte di un afflato universale, di un'energia potente,
comunque vogliamo chiamarla; che per noi e in noi parla attraverso
quel soffio sottile (così sottile da non poterlo neppure
nominare) che noi chiamiamo distrattamente anima, ma che è
quell'energia potente nella nostra personale piegatura. E
tutto questo, almeno per me, nel segno e nel gioco della letteratura.
Perché la letteratura è la mia passione ed ha,
di conseguenza, una piegatura letteraria la mia anima. Nel
bene e nel male.
A cura di BIANCA GARAVELLI
in "Stilos" 2003
INTERVISTA A RUFFILLI
Paolo Ruffilli è autore di diverse raccolte di poesia, di biografie,
curatele di classici, traduzioni, saggi, attività cui ha affiancato quella
di consulente editoriale e di collaboratore culturale di diversi quotidiani;
ha lavorato inoltre a corsi di scrittura creativa in Italia e all'estero,
contribuendo alla diffusione della poesia tra le giovani generazioni.
La sua storia di poeta è lunga, a partire dal volume La Quercia delle Gazze
(1972) per giungere a Le stanze del cielo (2008) ed ha trovato, a scorrere
le bibliografie, una rilevante fortuna critica. Pier Vincenzo Mengaldo,
fra gli altri, ha definito Ruffilli “poeta di pensiero”, evidenziando però
che lo svolgimento di questo “pensiero” procede per frammenti e percorsi sghembi;
altri sottolineano che la struttura profonda della sua poesia è segnata
da una cantabilità che ricorre a metri tra Metastasio e Gozzano, ad ariette
di una musicalità incalzante e insieme dimessa» (Giuseppe Pontiggia).
L'uso di versi brevi - quinari, senari, settenari - per dire in piena
economia di mezzi il più ampio spettro di cose è accompagnato da una profondità
di analisi, capace di guardare all'infinitamente piccolo per cogliere ciò che
non è misurabile. Il tutto, però, sembra essere trasferito in una dimensione
straniante: Ruffilli è infatti riuscito a raccontare in agili strofette,
piacevoli all'orecchio, il dramma della solitudine del carcere e della droga
o della malattia. Trova oggi piena conferma quindi l'intuizione di Roland Barthes
di una misura antifrastica del dettato, secondo la quale esso si rivela «tanto più
spietato quanto più è affabile». L'ossimoro sapiente di questi racconti frantumati
potrebbe servire, fra l'altro, ad un effetto duplice: conservare l'essenza musicale
della poesia e nel contempo far trasparire la tragicità - mi riferisco
in particolare agli ultimi due libri - del cogliere le ferite ammantate
dall'ipocrisia di chi procede all'isolamento e al nascondimento di condizioni
di dolore e di male. Ecco quindi che la gnosi del dettaglio crudele, collocandosi
nello spazio intermedio di quella antifrasi, vuole evitare che la scrittura scada
nell'ammonimento, segnato spesso nella tradizione poetica italiana dalla retorica
e dal sentimentalismo; né vuole dirigersi verso un sabotaggio del linguaggio di
tipo neoavanguardistico, per giungere, con Le stanze, ad evidenziare le contraddizioni
della realtà sociale da un altro versante. Non è poco se anche un poeta dalla storia
dichiarata ed esemplare come Alfredo Giuliani, attento lettore di Ruffilli,
ha riconosciuto l'importanza di una ricerca «di per sé validissima» che nel «riscontro civile»
trova «il valore aggiunto».
Vorrei partire proprio da un'affermazione di Giuliani nella prefazione a Le stanze:
«pensare e immaginare sono […] le costanti della poesia di Ruffilli secondo
un passo che è ormai fuori dall'elegia».
Ciò che si potrebbe dire anche di un “romanzo familiare” in versi, come
Camera oscura che si distanzia dal genere. Cosa ne pensi?
Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà,
per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia
colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c'è nessun disprezzo della realtà.
Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la
felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia
delle parole "speculare", "speculatico", "specola", rimanda a specchio, cioè
alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e
fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso,
scrivere per me significa usare l'immaginazione, nel senso che intendeva Einstein
di capacità di penetrazione conoscitiva in cui l'intuizione pesca su un fondale
tutt'altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede
e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo
trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente".
Ciò non di meno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello.
C'è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando
un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi.
Senza contare che per me l'autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente,
visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.
Nella tua poesia c'è una indagine del dolore come percorso di conoscenza
analitica, quasi, per usare una espressione di Raboni, si tratti di osservazioni
su reperti, su “fossili”, che nei particolari servono a rivelarci l'insieme…
Il linguaggio della poesia assolve alla funzione di cicatrizzazione.
E non solo il linguaggio della poesia. La parola è forse la più antica terapia
che l'uomo abbia perseguito riguardo alla propria salute profonda, quella mentale.
Già ai primordi del linguaggio, quando il suono cantilenato era parola magica
e scaramantica. La poesia conserva questa virtù antichissima. La scrittura
in generale è una forma di autoanalisi di grande qualità. Perché la parola
arriva là dove non si riesce a giungere con nessun altro sistema, né bisturi
né strumento d'altro genere. E la parola che conta di più è quella che non si
lascia contaminare dall'eccesso dei sentimenti e delle emozioni, proprio per
rendere loro giustizia con la messa a fuoco e senza l'appannamento.
Specie quando hai a che fare con la violenza del dolore, per non tradirlo,
devi lavorare come sui reperti fossili.
Alla tua poesia si è interessato una figura come Montale che, riferendosi
a Notizie dalle Esperidi (1976), ritiene fondamentale la «via della sottrazione»
e la ricollega a Leopardi «maestro nell'indicare servendosi del vuoto».
Se ciò ha grandi esempi nella poesia italiana, penso anche a Caproni, vorrei
che qui commentassi i pensieri di un personaggio-scrittore - che a me sembra un
“simbionte fantastico” - del tuo Preparativi per la partenza (2003): «il racconto
materializzava il successivo scambio di pieno e di vuoto, di presenza e di assenza…».
Rientra in tale ambito il rapporto con i libri della sapienza orientale di cui i
personaggio è lettore e tu traduttore?
Sì, è proprio così. È la legge dell'inversamente proporzionale, sempre operante
Lo dicono del resto anche i fisici che l'unico modo per l'uomo di trovare
l'infinito è di cercarlo nel piccolo. E, nei loro laboratori, cercano
l'infinitamente grande nell'infinitamente piccolo. Il segreto, del resto,
è lì: in quel vincolo estremo che tiene assieme particelle minime che si
attraggono é si respingono. Spezzare quel vincolo, lo sappiamo, scatena
un'energia violentissima. Quanto più contenuta è la compressione, tanto più
incontenibile è l'esplosione. Insomma, per dirtelo con una battuta taoista
che è poi presente in tutta la tradizione sapienziale, il mondo empirico e
quello metafisico sono tutt'uno. E' un ossimoro molto stimolante anche per la poesia.
Ritorniamo alla nostra tradizione. L'abbassamento di tono è una scoperta
decisiva dei crepuscolari. La scomparsa dell'io, attraverso personaggi che raccontano
e quindi lo mimetizzano, come succede in particolare nella tua ultima produzione,
sembra oggi essere un modo fecondo di far poesia, come gli esempi, in un altro
ambito, di Neri, Cucchi e di diversi altri, stanno a testimoniare. Cucchi,
aggiungo, ha più volte ribadito l'idea di un necessario riattraversamento dei generi
cui è affidato il testimone della poesia a venire. Vorrei conoscere la tua opinione
su ciò e la tua idea del fare poesia.
Sono risposte che lascerei agli studiosi della storia della letteratura.
Da scrittore, non mi pongo mai questioni del genere. L'ho fatto, forse,
quand'ero più giovane. Ma da un certo momento in poi sono andato dietro
alle mie ossessioni nel lavoro creativo. La fase progettuale, nella mia scrittura,
è sempre secondaria e relativa, rispetto al trascinamento dell'ossessione,
che per me è sempre ossessione di tipo musicale. Anche nel mio ultimo libro,
che nasce da una vecchia ossessione mai sopita: la perdita della libertà.
E non serve naturalmente finire in prigione o schiavo della droga per farne
esperienza. Ogni giorno, ciascuno di noi fa i conti con la perdita della sua
libertà, perché ciascuno di noi da sé la condiziona e la limita.
Per riprendere ancora Montale: «per il futuro, Paolo Ruffilli
ci riserverà qualche piacevole sorpresa»? Quali i tuoi progetti e a cosa
stai lavorando?
Come ti dicevo, il mio lavoro creativo procede sempre dietro alle mie
ossessioni. Dunque, sempre disteso nel tempo. Convivo per anni con i testi
che poi, a un certo punto, pubblico. Così da anni, dietro all'ossessione dell'amore
nel rapporto tra uomo e donna, convivo con una serie di testi che formano ormai
un grosso corpus (nel senso anche strettamente letterale) che troverà presto
soluzione in due libri separati, uno di racconti e l'altro di poesie. Facendo
ancora una volta ricorso all'immaginazione. È l'immaginazione che riesce a rendere
tutto più vero del vero, ma non realistico. L'importante è mantenersi in equilibrio
tra conscio e inconscio e, a questo fine, l'unica facoltà capace di aiutarti è
appunto l'immaginazione. L'unica in grado di sfuggire al vincolo dei sensi e della
ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.
A CURA DI EMANUELE SCICOLONE
in “Il Leviatano”, 2008
INTERVISTA A RUFFILLI
Ragni: Siamo a Palazzo Panciatichi a Firenze, il 15 dicembre 2008.
Sono con Paolo Ruffilli e l'occasione è la presentazione de “Le stanze del cielo”.
Sono domande completamente a sorpresa.
Hai più di trenta anni di attività poetica alle spalle, per te poetare è come respirare…
lo hai sempre fatto da quando eri ragazzo: poetare non è una attività intellettuale
in senso ristretto, ti viene senza precise referenze culturali consce,
frutto di una tua esperienza di lungo periodo. Ecco, da quando avevi vent'anni,
quali punti della tua ispirazione sono rimasti costanti? Quali invece sono andati avanti?
Ruffilli: Innanzitutto è rimasta costante proprio la spinta alla scrittura.
È sempre messa in moto da un'ossessione. Per me scrivere vuol dire andare dietr
alle mie ossessioni, profonde, coinvolgenti. È un'ossessione che ha sempre un
impulso musicale. Quindi mi trascina con un suo ritmo, mi spinge in una direzione
che va poi precisandosi nel tempo: prima magari mi gira per la testa per un
certo periodo, dopo la trascrivo e infine ci ritorno sopra. Questo tipo di
lavoro corrisponde a quel che mi accadeva nel passato. Ho sempre avuto bisogno
di tempi lunghi. Era così anche quando ero più giovane, nel senso che per me,
una volta scritta una cosa, non vuol dire che sia finito il processo della scrittura.
È fondamentale tornarci sopra con l'occhio dell'intelligenza, ma soprattutto con
l'orecchio per verificare il risultato. L'operazione della riscrittura è sempre
fondamentale. Quanto al resto, mi hanno sempre spinto a scrivere le cose più diverse:
la coerenza è questa, l'essere disponibile a tutto, quindi a tutti gli argomenti,
nel senso che non c'è un argomento preferenziale.
Ragni: In parte mi hai già bruciato la seconda domanda! Si parlava di
musica, della cantabilità del tuo verso, del tuo amore per il verso breve.
Molti riguardo a te hanno parlato di Ungaretti, di Montale, di Metastasio,
tu stesso hai citato Giovanni da Ponte e Caproni; bisogna ricordarsi anche
che hai tradotto molto, in particolare autori inglesi. Qual è il senso di
appartenere storicamente ad una determinata epoca, ma di non fare parte di
nessuna corrente? Certo è una soluzione felice, è un progetto cosciente e
meditato. Sei un poeta del Duemila su cui non si possono mettere etichette.
Come vedi questa cosa?
Ruffilli: Bene! Parlano anche i critici di questa impossibilità di
inquadrarmi in una scuola, in un settore, in un gruppo. Per me va benissimo,
io credo alla originalità irripetibile dell'esperienza di scrittura. Mi piace molto.
È chiaro che ciascuno ha i suoi antecedenti e quindi i suoi riferimenti e
sicuramente i suoi maestri, quelli accettati ma anche quelli magari rifiutati.
Però poi uno risolve, mastica, digerisce e ributta fuori in maniera diversa tutto
quel che ha assimilato. Come dicevi, io sono legato sicuramente al verso breve.
Il verso breve corrisponde a quel ritmo ossessivo che mi trascina sempre, quando scrivo.
È un ritmo fortemente sincopato che corrisponde al ritmo del nostro tempo,
il nostro è un tempo fatto di una successione puntiforme dove tutto si arresta e riprende.
Le musiche, se pensiamo al jazz e ad altre esperienze più recenti come il rock e il rap,
si affidano ad un ritmo fortissimamente sincopato. Questo succede anche in poesia,
inevitabilmente, proprio perché la nostra è la voce di noi in questo tempo, una voce molto
frantumata, balbettante, quindi giustamente cerca e trova questo ritmo fortissimamente sincopato.
In questo senso io mi ritengo e mi avverto in sintonia con il mio tempo, perché il nostro
tempo è fatto di frammenti, anzi, ancora più che di frammenti, di quel puntiforme
di cui dicevo prima.
Ragni: Frammentarietà e concisione: frammentarietà come incompletezza
rispetto a tutto quel che si potrebbe dire. Ora, sei nato poeta e lo sarai per altri
50 anni, però scrivi anche narrativa, genere spesso di più ampi spazi e maggior respiro.
Come mai?
Ruffilli: A me è sempre molto interessata anche la narrativa.
Chiaro che perseguo un tipo di narrativa che comunque ha una misura non particolarmentelunga.
Ho sempre avuto infatti una grande predilezione per il racconto. Ma mi interessa anche
il romanzo, magari breve. Chiaro che è diversa l'operatività nella scrittura narrativa
rispetto alla scrittura poetica. Però per me è sempre dominante l'ossessione musicale.
Anche quando scrivo narrativa, io vado dietro a un sogno musicale, quindi per me c'è sempre
una musica decisiva e trainante, come lo stesso filo del racconto. È fondamentale mettere
sempre più a fuoco quel che scrivo narrativamente in una chiave musicale. Proprio come fosse
una specie di partitura. Rispetto alla poesia hai inevitabilmente una misura più ampia, quindi
la tua scrittura sceglie soluzioni meno sintetiche, tuttavia sempre in una chiave che si
affida più al non dire che al dire. Chiaro che puoi anche dire non dicendo su una misura
più lunga: quella è la mia prospettiva.
Ragni: Hai proprio il gusto del “levare”, la battuta sospesa di una batteria
jazz. Hai parlato di ossessione. Vorrei sottolineare che non si tratta di
ossessione della morte, le esperienze che hai avuto sono state di vita… la vita la ami
senza retorica, ma con passione. Nei tuoi ultimi risultati c'è l'apertura alla
compassione umana, cioè il valore della vita comunque sia vissuta.
Ruffilli: Senz'altro è così. Sempre più nella mia esperienza si è accentuato
il senso giusto del gusto della vita, proprio a partire anche da un istintivo
riconoscimento della sua sacralità. In questo senso c'è la più profonda partecipazione
possibile a tutti gli aspetti della vita. Parlare di morte non significa essere
in realtà mortiferi o mortuari, è anzi una forma paradossalmente vivificante,
perché ti riconcilia ancora di più e meglio con la vita. Questo l'ho sentito
fortissimamente e sicuramente negli ultimi anni, mi ci ritrovo in questa tua
interpretazione… d'altra parte i miei lettori insistono sul fatto che dopo aver
letto le mie cose, anche quelle apparentemente più drammatiche, ne escono poi
con una “istigazione alla vita”.
Ragni: Diceva di te Baldacci: sono assolutamente e totalmente ateo,
però trovo una profonda religiosità in quello che dici e le tue parole finiscono
sempre con segni di speranza.
Ruffilli: Sì! Fece questa eccezionale disamina nel commento a
“La gioia e il lutto”, cogliendo in profondità certi temi. Devo dire che Baldacci
è stato uno dei miei lettori di confronto, facevo leggere le mie cose ancora inedite a lui,
proprio perché trovavo in lui sempre una grandissima capacità critica.
Per questa disponibilità lui per me è stato importante, fondamentale:
ho avuto la fortuna di poter essere confortato dalla sua sensibilità e
dalla sua esperienza. Dopo tanti anni riconosco ancora questo mio debito
nei suoi confronti. Quando mi si chiede di portare un riscontro critico,
faccio riferimento spesso proprio a quel brano che hai citato.
Ragni: Baldacci ha colto nel segno. Sei infatti un autore ricco di ossimori
e contrasti. Il lutto, il dolore, la gioia, la serenità. Parli spesso del vuoto,
di scavare nel vuoto e trovare il senso.
Ruffilli: È proprio così. Come la morte in realtà ci fa rispecchiare
nella vita, così il vuoto ti rimanda al pieno. È proprio attraversando
il vuoto che conquisti il pieno. Noi siamo ossessionati da quel pieno
caratterizzato da progetti che riempiono la nostra vita. La nostra quotidianità
spesso e volentieri ci trasforma in guardiani degli oggetti. È il vuoto che invece
ci fa riconquistare l'autentica pienezza delle cose della vita.
Ragni: Mi fai pensare a San Giovanni della Croce e al deserto,
nonché ai riferimenti buddhisti cui alcuni critici hanno fatto cenno.
Ruffilli: Condivido. Io sono anche appassionato del “Libro delle regole
celesti del Tao”. Mi sono dedicato quasi dieci anni alla traduzione di questo libro.
Nell'originale è in versi, quindi per me è stato una grande affascinante avventura
dargli una resa poetica italiana.
Ragni: Una sfida!
Ruffilli: E molto difficile!
Ragni: Be', per fortuna non prendi mai le cose sul tragico!
Hai molta ironia ed anche quando parli di cose drammatiche intrise di sofferenza,
mantieni levità e attenzione delicata verso le vicende umane. Quando invece eri
poco più che ragazzo, penso a “La camera oscura” e a “Piccola colazione”,
vedevi le cose dal punto di vista di un ragazzo che forse indugiava nel passato,
certo ne fotografava le immagini. Poi hai perso del tutto il gusto del passato
inteso quale nostalgia: eppure anche adesso racconti storie di personaggi che
hanno già fatto la loro vita. Fai però raccontare la vita non più in prima persona
da un poeta, ma in forma narrativa da diciotto personaggi!
Ruffilli: Ora, dopo le esperienze del mio percorso biografico,
ho una visione più equilibrata e pacata, più vivificante della vita.
Non così quando ero giovane. La mia visione era inevitabilmente più drammatica,
anche se sempre stemperata in chiave ironica o autoironica.
C'è stata una sorta di approdo a quella prospettiva di equilibrio cui ci richiama
una delle Regole Celesti del Tao. La maturazione di una persona è coincidente
proprio con la sua capacità di guardare in maniera più pacata, più felice,
equilibrata, alle cose della vita e del mondo.
Ragni: Hai molto parlato dell'arte come di un cammino individuale,
non hai manifestato particolare attenzione a valori politici, però per te
la poesia ha un valore terapeutico ed apre ad una dimensione umana.
Confrontando le tue prime ed ultime cose, senti più vicina la dimensione
di apertura sociale? Come la giudichi in riferimento alla tua attività di operatore
culturale nei confronti di poeti altrimenti senza voce?
Ruffilli: In realtà credo che creativamente uno è quello che è,
e lo è in maniera autonoma e indipendente da qualsiasi progetto o
programma. Non è che io mi impongo un programma e quindi ottengo quel
certo risultato: io vado dietro a qualcosa che mi viene incontro,
anche da lontano. Il che non vuol dire affatto che io sia estraneo
alla compartecipazione di una condizione sociale e civile dell'Italia,
tant'è vero che alcuni critici hanno parlato, soprattutto per gli ultimi
libri, di una mia dimensione civile come scrittore. Verissimo. In realtà
ho soltanto detto che mi sono sempre posto in un atteggiamento scettico
rispetto al mero concetto di “impegno”. È chiaro che impegno c'è e ci deve
essere, ma è soprattutto un fatto di autenticità della scrittura, quindi
il vero scrittore è sempre e comunque impegnato, anche se non necessariamente
questo impegno deve essere così evidentemente dichiarato, addirittura a livello
propagandistico. È chiaro che porto attenzione nei confronti della realtà attorno
a me dal punto di vista sociale e civile: assolutamente è una esperienza della
mia vita. Tant'è vero che non sono mai stato isolato o separato dalla compartecipazione,
anche da un punto di vista strettamente letterario. Cerco di contribuire a fare conoscere
testi di altri. Sicuramente questa è una dimensione che continuerò sempre a coltivare.
A CURA DI PAOLO RAGNI
in Blog paoloragni.it 15 dicembre 2008
INTERVISTA AL POETA PAOLO RUFFILLI
La poesia ha avuto sempre dei problemi, nel corso dei secoli,
col resto della società, ad essere compresa ed amata. Secondo lei da cosa
deriva questo fatto?
La poesia, per sua stessa natura, non la si può pensare in chiave di
partecipazione di massa, è una ricerca di significato personale, una pratica esoterica.
C'è un atto di volontà, magari anche non consapevole, che poi si può perfezionare
come tale. La poesia può però godere di un ascolto più ampio: un ascoltatore o un
lettore di poesia può essere catturato da qualcosa di dilettevole. Anche nell'antichità
la poesia aveva un suo spazio pubblico di lettura. Dante stesso lo faceva a suo tempo.
La poesia non si è mai rifiutata all'ascolto generale, ma non si è mai imposta.
Non può essere puro intrattenimento, evasione. Con la poesia si tratta comunque di
fare uno sforzo per poterne fruire.
A chi è demandato questo compito, il fatto cioè di insegnare il modo
di fruizione: alla famiglia, alla scuola?
Tutte le società l'hanno fatto a loro modo. Senz'altro il compito spetta
a entrambe, in tutte le civiltà, anche quelle arcaiche. Nel cosi detto Terzo Mondo,
c'è un grande serbatoio poetico vivo, in cui si pesca a piene mani. Nella società
latino-americana, che conosco, lo spazio della poesia è dinamico e attinto dalla
gente. Ci sono occasioni, eventi. La stessa lettura è più diffusa e partecipata,
ed i giovani la fruiscono. La poesia in quei luoghi, il poeta stesso, sono conosciuti.
I giovani sanno a memoria i versi dei loro poeti e accompagnano nella lettura l'autore,
un po' come fosse un cantante.
In Italia abbiamo avuto molta arte, prodotto bellezza in gran quantità.
Ma sembra manchi un vero e proprio pubblico.
È una realtà storica, che riguarda il rapporto con la letteratura,
ma anche con l'arte in generale. Il nostro è un paese-museo. C'è una
reazione uguale e contraria che tende ad allontanare il pubblico. La
nostra lingua è stata unificata tardi, non ha avuto tempo di diventare
naturale. Altri paesi lo sono da secoli, c'è stata maggiore educazione
alla cultura. In una società in cui in famiglia non si legge,
difficilmente a scuola sarà semplice far leggere. La lettura di scuola
è poi sempre un dovere, da un certo punto di vista. Questa mancata abitudine
a leggere è vera, i dati delle statistiche sono falsati: il numero dei lettori
oggi appare maggiore di quanto non sia nella realtà. Poi, è anche una
questione di qualità. Ma, volendo tornare ai numeri, negli anni '70 i
best-seller erano nell'ordine delle trecentomila copie: oggi lo sono libri
che arrivano a trentamila. Nessun premio oggi fa vendere così tanto come venti
o trent'anni fa. La realtà mass-mediatica ha favorito l'ottundimento.
Il livello della televisione italiana è scaduto, anche nei confronti di altri
paesi europei.
È un problema di sistema culturale, dunque.
Di scelte etiche. Paradossalmente, l'Italia, dominata esteriormente
dalla cultura cattolica, dal papato, è quella dove si fanno le scelte
più ignobili. C'è la finzione del rispetto. Ogni cosa si fonda sull'ipocrisia,
a livello nazionale. L'Italia è un paese, che, pur blaterando di valori, è
in netto contrasto con tutto questo. Gli scandali non sono solamente quelli
di cui si parla, ne esistono in ogni campo. Questo è un paese mafioso.
L'attenzione non va al merito, ma, purtroppo, al rapporto personale,
all'appartenenza di gruppo.
In mezzo a questo modello imperante, che cosa può fare la poesia?
La società italiana a parole l'ha esaltata, retoricamente. Tutto è monumento,
ma nel concreto la cultura viene museificata proprio per evitare che disturbi.
L'idea ossessiva del proprio passato ha poi l'effetto di instillare nella gente
l'idea che niente di grande si possa fare, dopo ciò che è stato fatto nel passato.
Un paese così è mortifero, perché non crede nel futuro e non crede nelle nuove
generazioni, le sfavorisce. Chi scrive poesia, allora, al di là di ciò che scrive,
è contro questo tipo di situazione.
La sua generazione ha tentato di cambiare le cose. Ha creato,
ha modificato, proposto, ma non c'è stato un seguito.
I nati negli anni '40-'50 sono stati ostracizzati dagli scrittori più anziani,
che facevano loro barriera, specialmente in ambito poetico. Si tendeva a
favorire solo gli epigoni, i portaborse. Noi la pensavamo in modo diverso.
Eravamo contro quella dimensione retorico-classicistica che ancora imperava
e che, paradossalmente, la generazione precedente alla nostra usava come una
sorta di scudo difensivo per tenerci a distanza. Come a dirci: voi non avete
il senso della lingua e della musica che noi abbiamo ereditato dalla tradizione.
Per capire meglio, parliamo della sua esperienza personale.
Come ha iniziato, e quale è stato il suo percorso?
Si inizia sempre per istinto, poi magari si acquista coscienza,
ma non è detto. Per quello che mi riguarda, solo dopo i 33 anni ho
iniziato a capire molte delle cose che mi riguardavano. La mia è una
formazione di linguista e da linguista ho cominciato a capire che cosa
facevo. Gli uomini, all'inizio dei tempi, non sapevano parlare.
Il linguaggio non è nato, come si crede a torto, per comunicare, perché
gli uomini già comunicavano tra loro come tutte le specie animali. Dietro
all'elaborazione del linguaggio c'è una spinta di tipo magico-rituale.
L'uomo elabora il linguaggio facendosi mago, cercando le parole magiche e
affidandosi alla loro musicalità. Il linguaggio nasce insomma come linguaggio
musicale, indifferenziato. Solo col tempo si è differenziato, scindendo il
significante dal significato. La poesia è l'erede di quel processo di elaborazione
del linguaggio da parte degli uomini. L'impulso è quindi musicale: e, solo se è
tale, è magico e compie miracoli. Le lingue vengono elaborate secondo una legge
dell'economicità: pochissimi elementi (ventuno suoni, per l'italiano) per
costruire infiniti discorsi, insomma molto poco per avere tutto. Il fondamento
stesso della poesia. Solamente negando si può affermare, come dice il Tao.
L'allusione è dietro ogni forma d'arte, ma soprattutto dietro alla poesia.
Ma a un certo punto la poesia accentua, via via, l'aspetto logico, tende a
modificarsi, come tutto ciò che continua. Mi ritrovo in queste stesse modalità
di sentimenti e di ragione, di emozione e di intelligenza. Fuori da qualsiasi
classificazione forzata o forzosa e, in primo luogo, dal malinteso del così
detto realismo. Il così detto realismo non è meno visionario della fantasia.
La scienza stessa pone i limiti della conoscenza e della riproducibilità del reale.
Non le sembra che in Italia ci sia questa fissazione della forma tipica,
la mania della “poesia impegnata” a tutti i costi?
Per quel che mi riguarda, è stato importante muovermi al di fuori degli
schemi, delle scuole, delle correnti. Leggere le avanguardie, gli sperimentali,
è stato importante, ma non esaustivo. Mi interessava la loro scrittura, non
le loro opinioni. In poesia, Pavese e il suo Lavorare stanca sono stati
occasione di grande riflessione. Dall'altra parte, l'essenzialità di Ungaretti.
Importantissimi Caproni, con cui ero in sintonia totale assoluta, e Montale.
Quando uscì Satura, scrissi un articolo: Montale uno e due. Ho verificato,
conoscendolo, che c'erano state due fasi nella sua opera, e la seconda, meno
celebre, era la sua più personale. Lui era il poeta dell'intelligenza che si
esprime su tutto, ma nei primi anni si era volutamente censurato per fare
carriera. Aveva fatto un calcolo, e, d'altronde, era uomo di calcolo.
Se avesse scritto come voleva, non sarebbe stato preso in considerazione.
Eppure lo aveva detto già Leopardi che i poeti moderni non possono che
ragionare sui sentimenti. L'esperienza che ho della poesia è il fatto di non
perdere né in istinto né in ragione, far convivere questi due aspetti.
Non c'è, quindi, in Italia, questo problema della poca recettività
al resto del mondo, lo scarso interesse per le culture estranee?
Sì, senz'altro c'è questa autarchia in Italia. Però le cose si sono
diffuse comunque, si pensi a Pavese e alla letteratura americana.
C'è sempre stata un grande circolazione. Chi scrive, legge, ed ha
guardato anche fuori dal suo spazio locale.
E quale è il suo rapporto con la prosa e la letteratura non
eminentemente in versi?
Io amo l'opera letteraria contaminata: Proust, Joyce, Pirandello,
Kafka, scrittori di crisi, di modernità, che tendono a mescolare saggio,
poesia, romanzo. L'opera letteraria deve essere leonardesca, geniale
e mettere assieme un po' tutto. Sempre però in virtù del talento
dell'autore, del suo tocco creativo.
Lei ha detto che non ha mai aderito a qualche corrente in
particolare, e dobbiamo dire che tra i poeti moderni lei è
indubbiamente uno dei più originali in quanto a stile. Abbiamo
notato che riguardo a questo lei si allontana molto dalla tradizione
italiana, quindi volevamo chiederle quali sono state le sue letture
e dunque i suoi maestri, chi ha ispirato il suo stile molto particolare
e originale e la sua poetica, e come si inquadrerebbe lei nel vasto
panorama della poesia italiana.
Come dicevo, ho sempre avvertito insofferenza verso qualsiasi
corrente, gruppo o scuola, per istinto sentendo che non ci sono
mai strade già battute da seguire, opzioni o categorie predefinite.
Ogni esperienza creativa degna di questo nome è sempre unica e
irripetibile. Il che non vuol dire, naturalmente, che non ci siano
debiti rispetto a quanto di creativo si è fatto prima. Ma il problema
è che la creatività non ammette imitazione o epigonismo. Lo sappiamo
da lettori, che ci piacciono cose diversissime tra loro. E, quando
ci piace un testo, non è detto che ci piacciano altri testi che
assomiglino a quello. La creatività è profondamente individuale.
Difficile poi sapere quali siano i propri maestri, perché spesso
i padri rifiutati contano di più di quelli riconosciuti. Esiste sempre
un percorso. Ma, quasi mai, si riesce a fotografarlo dall'alto, come
se si stesse in cima e fosse tutta in vista la strada compiuta. Perché
si tratta di un percorso obliquo, fatto dì corsi e ricorsi, di volute
e di pieghe. Così, è più facile che uno parli delle intenzioni che lo
hanno mosso, piuttosto che delle tappe che ha toccato in successione.
Del resto, avendo la consapevolezza dei limiti di questa prospettiva,
che male c'è? Ecco, allora, il mio sogno di scrittore. La mira di un
tempo e di adesso: togliere peso, il più che si possa, alla scrittura.
Così ho cominciato, con qualche incertezza di progetto, e così sono
andato continuando. Avendo dinanzi agli occhi quel gioco di pieni e di
vuoti in cui è l'assenza maggiormente a contare. Che sogno sublime,
quello di una pronuncia lieve e sfuggente. Che amabile inganno, giocato
a se stessi e al lettore, portati su un 'onda leggera dentro il dolore e
l'impronunciabile dramma. Che audace licenza, l'aver celato nel tenue
riflesso del luogo comune la più scandalosa effrazione. I modelli, a volerli
cercare, non mancano. Mozart e Rossini, prima di tutto, perché per me la
poesia è scrittura musicale. Tra i poeti, a noi più vicini, Ungaretti, Saba,
Penna e Caproni. Nel mezzo, Metastasio e i librettisti Da Ponte e Sterbini.
Ma, poi, come rinunciare a Dante e a Leopardi? Per me, fondamentali.
Di collocarmi nel panorama più generale della poesia italiana, non sono capace.
Un'altra cosa che ci interessa approfondire riguarda il suo rapporto
con la poesia d'amore, purtroppo eccessivamente trascurata in Italia e
considerata di categoria secondaria.
L'Italia è il paese del melodramma, che è stato per lunghissimo
tempo l'unica nostra forma di cultura nazionale. Probabilmente proprio
come reazione all'eccesso dei sentimenti del melodramma, i poeti italiani
moderni si sono tenuti e si tengono ancora lontani dal versante del
sentimento per eccellenza che è l'amore, lasciandolo ai cantautori.
C'è naturalmente qualche eccezione significativa, come ad esempio Umberto
Saba. Quei pochi che ne scrivono, lo fanno da una posizione così rarefatta
e intellettualistica da risultare immediatamente inattendibili. Ma più in
generale da noi i poeti temono la poesia d'amore e, avendo demandato alla
canzonetta di cantare l'amore, considerano di serie B la poesia d'amore.
Da giovane ero così anch'io. Ma, per fortuna, mi sono accorto per tempo
che non si poteva rinunciare a dare espressione poetica alle emozioni
dell'amore. Ho pubblicato varie cose, nel corso degli anni. Cominciando
da un lungo poemetto, “Per amore o per forza”, nella raccolta Piccola
colazione e poi via via proponendo gruppi di poesie singole. Da tempo
vado preparando un “libro” compatto di poesie d'amore, che non è ormai
molto lontano dal vedere la luce.
Infine ci piacerebbe sapere - e questo anche a livello personale
- la storia di Nuvole, come è stato concepito il libro e dove lo
catalogherebbe nella sua produzione poetica.
La raccolta nasce dalla passione che ho sempre avuto per
le nuvole e che mi ha spinto a farmi esploratore sotto i cieli
di molti paesi. Avevo creato addirittura, insieme ad altri amici,
una specie di club di “Cercatori di nuvole”. Il fascino delle
nuvole riposa sulla loro mobilità e leggerezza, che sono aspetti
fondamentali della mia poetica. Perché, anche per la mia indole,
è nel vuoto e nell'inconsistenza la radice di quella metamorfosi
cangiante che chiamiamo realtà. La realtà, anche e soprattutto quella
più solida, ha il suo più vero riscontro metaforico e allegorico nelle nuvole
A CURA DI ALESSANDRO ROMANO ED EMANUELE SCICOLONE
in “Il Leviatano” 2009
INTERVISTA A PAOLO RUFFILLI SULLA POESIA
Paolo Ruffilli è nome notissimo in Veneto, dove risiede,
quanto nel resto d'Italia. La poesia è la ragione stessa della sua esistenza.
Che cosa ha dunque per salvare la vita?
«La poesia è una pratica esoterica. Un'attività molto seria
Sacra. Che ha a che fare con la magia. È la parola magica
infatti quella che risolve la situazione, la chiave che apre
le porte serrate. La poesia è la via dell'approfondimento e della
profondità alla ricerca delle ragioni più vere ed autentiche e in
questo senso non potrebbe non salvare la vita. E non importa se poi
nella quotidianità corrente e corriva si pensa l'esatto opposto».
Salva la vita al poeta o al lettore?
«A entrambi. È una pratica esoterica che presuppone una scelta
individuale forte. Sono io che scelgo la via della ricerca e della salvezza.
La poesia è prima di tutto la pronuncia di questo percorso da parte del
poeta che però la lascia come testimonianza e traccia di confronto per
gli altri. È così da sempre. Penso al Dante della Commedia dove la pronuncia
di un percorso simile va dallo smarrimento nella foresta alla ricerca del
sentiero difficile e arduo che porta alla salvezza. Il percorso è suo,
la salvezza è la sua, ma la testimonianza è aperta a quanti vogliono
inerpicarsi per lo stesso sentiero».
Tra lettore e poeta allora si stipula un'alleanza per trasformare il mondo?
«Certamente. La vera poesia è sempre e solo scritta dal poeta per
se stesso e proprio per questo può avere veri lettori. Il vero lettore
è colui che, sempre attivo, compie la scelta di incamminarsi lungo quello
stesso sentiero. Nella poesia, come scrive la Bisutti, si realizza la
nostra unicità».
Ma esiste la possibilità di costruirla anche fuori o lontano dalla poesia?
«Molti percorsi di ricerca e di salvezza non lasciano certo una traccia
in versi, ma ugualmente la parola rimane lo strumento della ricerca.
La parola autentica è sempre una parola poetica, anche quando non ha
le caratteristiche o le connotazioni della poesia in senso letterario».
Che cosa può dire questa parola a chi è devastato dal quotidiano,
schiacciato dalla realtà?
«Può dire molto ma a partire dalla scelta personale. Ciascuno di noi
è immerso e stritolato da una quotidianità che lo distrae e lo porta ad
occuparsi d'altro, quasi sempre di cose assolutamente prive d'importanza
riguardo alla salvezza, ma è anche nella tragedia che si cambia orientamento,
come avviene in Dante».
La coscienza della nostra condizione è dunque la sede dell'ispirazione?
«Se così vogliamo. È il luogo dell'ispirazione misterioso e oscuro che
si va chiarendo cammin facendo o forse solo alla fine del percorso».
Quali regole seguire allora per scrivere una poesia? Accordare tecnica e anima?
«La poesia che ci attraversa e ci trascina è quella in cui sentiamo
la coincidenza perfetta tra il dire e l'essere e da questo punto di vista
la parola ha in se stessa le sue regole, comprese quelle codificate nel
tempo che passano attraverso i generi letterari. Ma l'operazione principale
è sempre quella di levare: c'è sempre troppo e mai nulla da aggiungere.
Togliere casomai».
E una poesia di questo tenore la possiamo imparare a scuola?
«Si comincia lì e forse ancora prima, facendo tesoro dell'avventura
della parola quando ci dà una forma interiore fatta di strutture…».
È fondamentale allora imparare a memoria la poesia?
«Senza esagerare. Non sono per un uso eccessivo della memoria.
La memoria è anche pericolosa. Anche i computer sono resi inabili
da troppa memoria. Dobbiamo trattenere solo l'essenziale. La poesia
è dire il massimo con il minimo».
Si potrebbe insomma essere poeti senza scrivere poesie?
«Sarebbe un silenzio che grida nel deserto. La dimensione poetica
è in rapporto con il silenzio, perché in poesia tra l'altro non c'è
mai nulla più del dovuto».
Le parti bianche della composizione?
«Le parti bianche sono i silenzi di cui sono intessute le poesie
e servono a dare maggiore rilievo alle parole presenti. Ogni parola
è già un mondo. E più parole fanno un universo».
Tutto è quindi poetabile come afferma la Bisutti?
«Assolutamente. La poesia non ha temi privilegiati.
Questa è una idea preconcetta».
Quindi quando Zanzotto scrive “In questo progresso scorsoio”
sta facendo ancora poesia?
«Sì, perché il poeta, in particolare uno grande come Zanzotto,
caratterizzato da lucidità e forza espressiva, anche in questo periodo,
continua a pronunciare una parola che ha la tipica forza della parola
poetica: anticonformista, anticonvenzionale, rivoluzionaria, lacerante,
mai accomodante».
Non ci può essere una rivoluzione senza dare ascolto ai poeti?
«Ai poeti non si dà più neppure la possibilità di parlare. In un
salotto televisivo il poeta non è mai invitato e se lo è, lo è per
l'appartenenza politica, per rappresentare una parte».
Un giullare più che un poeta...
«È la negazione del poeta. Il poeta non sta per così dire
da nessuna parte e dappertutto. La sua parola viene dal profondo,
è necessaria e sufficiente e mai addomesticabile. Un poeta non
lo si può controllare e questo lo rende ancor più pericoloso».
A CURA DI LUCA ORSENIGO
in “Il Gazzettino” 11 marzo 2009
INTERVISTA A RUFFILLI SU “AFFARI DI CUORE”
Tu stai riflettendo sull'amore da parecchio tempo, sia con
i tuoi romanzi che, adesso, con questa raccolta di poesie. C'è un
motivo particolare per questa tua attenzione?
È uno degli argomenti che sento più coinvolgenti, fin dall'infanzia,
sul versante del rapporto con l'altro sesso. Perché, nella mia
esperienza di allora, è stata sorprendente la scoperta di due mondi
estranei e lontani come quelli maschile e femminile. Crescendo,
l'evidenza si è ancor più radicata: uomini e donne parlano lingue
diverse, ma fanno di tutto per intendersi, perché si attraggono come
opposti. La cosa riesce e non riesce, dipende da un'infinità di fattori.
Ma è comunque un'avventura straordinaria, coinvolgente, produttiva anche
nel contrasto e perfino nel fallimento del rapporto. In ogni caso, è
più forte di noi: l'amore è la forza che trascina verso l'alto, anche
quando sembra precipitarci verso il basso.
Intervistando recentemente Antonio Di Ciaccia, curatore dei
“seminari” di lacan per Einaudi, gli ho sentito fare, da psicanalista,
affermazioni sull'amore che possono ricordare le tue, formulate invece
da un poeta: che l'amore cioè è «l'unica strada che permette di superare
il problema dei rapporti fra uomo e donna, ma in generale fra gli esseri
umani, infatti è proprio l'amore, che, paradossalmente, permette loro di
mettersi d'accordo nonostante gli ostacoli che tenderebbero a impedirlo.
L'amore è una modalità tipicamente umana, a diverse stratificazioni e
versanti. Colpisce l'intimo dell'altro, come poi fa il suo opposto, l'odio,
e supplisce al fatto che strutturalmente, fra gli esseri umani, esiste una
tensione negativa». Cosa ne pensi?
Condivido queste considerazioni, proprio nell'ottica della forza
capace di trascinarci fuori da noi stessi, dal nostro egocentrismo e
dal nostro egoismo, liberandoci nello sforzo tutt'altro che facile di
unirci, di congiungerci a un'altra parte. Attraverso quella forma di
cannibalismo reciproco che è l'amore dei corpi, si approda magari
inaspettatamente all'amore tra persone.
La naturalezza delle tue liriche sembra nascere da una loro
“sincerità”: ma chi fa poesia d'amore quanto è nelle sue produzioni,
e quanto invece si “protegge” attraverso il filtro della letteratura?
Come diceva Roland Barthes, la naturalezza è il massimo degli
artifici. Perché quello che chiamiamo “naturalezza” passa attraverso
la più sottile delle operazioni possibili. O, come diceva Fernando
Pessoa: il poeta è un “finitore” e finge così bene da rendere più
autentici i sentimenti come l'amore o il dolore. Io sono un fingitore,
appunto. Nel senso che non sono uno scrittore autobiografico. Certo,
faccio riferimento alla mia esperienza di vita, ma mi rovescio sempre
nelle vite degli altri. Anche in questo caso, raccontando il percorso
ambiguo, contrastato, drammatico, ma salvifico dell'amore.
Lo strumento della prosa e del romanzo, e quello della poesia,
sono da te entrambi praticati: ma a quale ti rivolgi con più confidenza?
E perché?
Per me non c'è una differenza sostanziale tra poesia e narrativa.
Credo nella mescolanza e nell'ibridazione, perciò elementi dell'uno
e dell'altro genere si intrecciano sempre nella mia scrittura. Certo,
la poesia persegue poi una economicità di parole che non è quella della
narrativa. Ma, nell'uno come nell'altro caso, per me contano i modi
fondamentali della poesia, cioè l'allusione e, dunque, il dire meno
che si possa; e la musica, cioè il ritmo che trascina. Sono partiture
musicali sia le mie poesie che i miei racconti e i miei romanzi, nel
segno di un'orchestrazione che mira, attraverso le parti e i frammenti,
alla sinfonia.
C'è qualcuna delle tue poesie a cui sei legato particolarmente?
Per quale motivo?
No, non c'è nessuna poesia preferita sulle altre. Sono legato
all'intero libro, al suo sviluppo nell'insieme di un discorso sul
mistero dell'amore.
C'è qualsiasi altra osservazione a cui vorresti dare rilievo?
L'Italia è il paese del melodramma, che è stato per lunghissimo
tempo l'unica nostra forma di cultura nazionale. Probabilmente proprio
come reazione all'eccesso dei sentimenti del melodramma, i poeti italiani
moderni si sono tenuti e si tengono ancora lontani dal versante del
sentimento per eccellenza che è l'amore, lasciandolo ai cantautori.
C'è naturalmente qualche eccezione significativa, come ad esempio
Umberto Saba. Quei pochi che ne scrivono, lo fanno da una posizione
così rarefatta e intellettualistica da risultare immediatamente inattendibili
(anche lo stesso Montale, che si rivolge a “donne dello schermo” conficcate
dentro una fumosa memoria avulsa non solo dalla fisiologia dell'amore ma
anche da quel salto nel vuoto che l'amore pretende). Più in generale da noi
i poeti temono la poesia d'amore e, avendo demandato alla canzonetta di
cantare in modo epidermico le faccende amorose, considerano poi di fatto
di serie B la pratica della poesia d'amore. Da giovane ho avuto anch'io
questa tentazione snobistica o deformazione che sia. Ma, per fortuna, mi
sono accorto per tempo che non si poteva rinunciare a dare espressione
poetica alle emozioni dell'amore. Ho pubblicato varie cose, nel corso degli
anni. Cominciando da un lungo poemetto, “Per amore o per forza”, nella
raccolta Piccola colazione e poi via via proponendo gruppi di poesie singole.
Nel tempo ho poi preparato questo “libro” compatto di poesie d'amore.
A CURA DI MARIA TERESA INDELICATI
in “Corriere di Romagna”, 16 novembre 2011
INTERVISTA A RUFFILLI
N. P.: Mi dica un po' quali sono le occasioni della vita che
più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? Quanto di autobiografico
c'è nelle sue opere? Lei pensa che ci sia sempre differenza fra poesia
lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un'espressione
diretta dell'anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?
P. R. La mia vocazione nasce dalla mia passione musicale, già da piccolo,
quando intorno ai 3 anni, imparavo a parlare. Le parole mi interessavano
soprattutto come note musicali e la cosa non è mai cessata. Ancora oggi
come allora, per me scatta l'ossessione musicale dietro all'innesco di
una parola e gli vado dietro. Per me, la poesia è prima di tutto musica,
nel senso che tutto il resto viene dopo. Ecco perché è impossibile separare
la forma del contenuto: nascono insieme come esecuzione musicale. L'autobiografia
è fondamentalmente, per me, l'andare dietro alle mie ossessioni musicali.
Per il resto non c'è molto di quello che chiamiamo “autobiografico”.
Anche in poesia a me piace rovesciarmi nelle vite degli altri e, usando
la prima persona, immaginare sentimenti, emozioni, vicende… Né mi capita mai
di distinguere, nella mia avventura dello scrivere, tra lirica e impegno.
Non ci penso proprio. Sono gli altri poi ad attribuire le etichette.
N. P.: La sua poetica, essendo uno dei maggiori interpreti della poesia
contemporanea, è in gran parte nota attraverso le innumerevoli recensioni,
prefazioni, e note critiche che la riguardano. Ce ne vuole parlare lei?
P. R. Esiste sempre un percorso. Ma, quasi mai, si riesce a fotografalo
dall'alto, come se si stesse in cima e fosse tutta in vista la strada compiuta.
Perché si tratta di un percorso sghembo, fatto dì corsi e ricorsi, di
volute e di pieghe. Così, è più facile che uno parli delle intenzioni
che lo hanno mosso, piuttosto che delle tappe che ha toccato in successione.
Del resto, avendo la consapevolezza dei limiti di questa prospettiva, che
male c'è? Ecco, allora, il mio sogno di scrittore. La mira di un tempo e
di adesso: togliere peso, il più che si possa, alla scrittura dietro
all'ossessione musicale. Così ho cominciato, con qualche incertezza di
progetto, e così sono andato continuando. Avendo dinanzi agli occhi quel
gioco di pieni e di vuoti in cui è l'assenza maggiormente a contare.
Che sogno sublime, quello di una pronuncia lieve e sfuggente. Che amabile
inganno, giocato a se stessi e al lettore, portati su un 'onda leggera dentro
il dolore e l'impronunciabile dramma. Che audace licenza, l'aver celato nel
tenue riflesso del luogo comune la più scandalosa effrazione.
N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale
il libro che più le ha suscitato interesse? E quindi predilige? Perché?
P. R. Ho sempre letto di tutto e già da piccolo ero un lettore onnivoro.
Invecchiando, poi, ho cominciato a privilegiare (per l'ossessione del
tempo che incalza) quasi esclusivamente le riletture. Rileggendo i grandi
(già di per sé sterminato l'elenco), italiani e stranieri. Faccio qualche
esempio. Dante (che ho riletto almeno dieci volte). Leopardi (almeno sei volte).
Tutto Tolstoj (almeno tre volte). Dostoevskij (almeno tre volte). Kafka
(almeno tre volte). Checov (almeno quattro volte). E così via: Bulgakov,
Joyce, Shakespeare, Musil, Proust, Maupassant, Sterne, Pirandello, Marquez,
Roth, Puskin, Svevo, Pasternak… Impossibile scriverli tutti e impossibile
fare una graduatoria. E la rilettura è straordinaria, perché ti fa scoprire
sempre più cose, aspetti che ti erano sfuggiti, implicazioni, retroscena.
Sto parlando della letteratura con la maiuscola, la grande letteratura.
E la grande letteratura è una pratica esoterica che ti porta nel cuore
della profondità, perché i suoi fondali arrivano negli abissi e l'occhio
ha bisogno di tempo per adattarsi a cogliere ciò che in principio ancora
gli sfugge.
N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare
uno stile di uno scrittore? E se sì, in che modo?
P. R. Una delle cose che si imparano istintivamente è che solo
la lettura porta alla scrittura. Non esistono grandi scrittori che non
siano stati grandi lettori. Solo leggendo grandi scrittori si alimenta il
talento personale. E i grandi scrittori sono grandi proprio perché sono
tra di loro diversi (non ce n'è uno uguale a un altro, proprio in quanto
ciascuno è originale). Dunque, leggendoli ci si alimenta di cibi variegati
e diversi che, senza accorgercene, digeriamo e risputiamo fuori in altra e
ulteriore diversità. È la varietà e la qualità che producono tale effetto e
valorizzano un talento creativo. Guai a credere a quelli che affermano di
non leggere per non farsi contaminare… Chi non legge non sa scrivere.
Creativamente parlando. Infatti, abbiamo tanti scriventi e scrivani e
scribacchini, ma pochissimi scrittori.
N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta
sperimentalismi linguistici? Quella che si contrappone e rifiuta ogni
ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone
ad un uso costante dell'endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?
P. R. Intanto, bisogna subito dire che senza esperimenti non si va da
nessuna parte, né nelle scienze né nelle arti. Di per sé la creatività è
sperimentazione, parlo naturalmente della creatività che conta. I creativi
vanno dietro a un impulso che li spinge avanti e oltre, spesso senza neppure
rendersene conto. Usano, da creativi, le antenne che hanno. E le antenne
pescano in alto, dove tutti gli altri, meno creativi, non arrivano ancora.
Ricordiamoci il vecchio monito sapienziale: niente di nuovo sotto la luce
del sole eppure tutto nuovo. Tutto ciò che conta, creativamente, è sempre
“nuovo”. Non c'era fino a un attimo prima. Poi c'è. Ci dimentichiamo troppo
spesso che la vita è trasformazione continua: solo ciò che si trasforma è
destinato a durare. Il resto è già morto, anche se non lo sa. Nella vita,
non esiste la possibilità di nessun ritorno al passato. Indietro non si
torna mai e chi lo crede possibile è un ingenuo. Anzi, peggio: è pericoloso.
N. P.: Cosa pensa dell'editoria italiana? Di questa tendenza a
partorire antologie frutto di selezioni di case editrici? Di questi
innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?
P. R. L'Italia è un paese anomalo, tra i paesi così detti civili, non
solo politicamente, ma a tutti i livelli. Dunque, anche l'editoria risente
della tragica realtà che ci riguarda come paese e, in primo luogo, il criterio
mafioso che è dominante in Italia. Il merito non esiste, prevale l'affiliazione
(l'amicizia, l'appartenenza allo stesso gruppo, famiglia, partito…). Abbiamo
un'editoria sgangherata che promuove quasi esclusivamente una letteratura di
serie B o C. la serie A è casuale e prevalentemente in traduzione (sono gli
editori stranieri che la promuovono e i nostri la traducono). Per i premi
vale lo stesso discorso.
N. P.: Certamente sarà legato ad una sua opera in particolare.
Ne parli, riferendosi più ai momenti d'ispirazione, ai tempi di scrittura,
alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa
della funzione del memoriale in un'opera di un poeta? E alla funzione
della realtà nei confronti di un'analisi interiore?
P. R. In realtà, non sono legato a un'opera in particolare.
In genere, io lavoro in parallelo a cose diverse per anni.
I miei libri hanno sempre una gestazione non inferiore ai dieci anni
E, lavorando in parallelo a libri diversi, ne avrei tanti candidati
alla pubblicazione. Ma, poi, non pubblico che una minima parte di quello
che scrivo, dopo averci convissuto a lungo. La convivenza coincide con
una continua riscrittura e la riscrittura avviene rileggendo a voce
alta ciò che ho scritto. Proprio per quella ossessione musicale di cui
parlavo prima. L'orecchio ha bisogno di tempo per mettere a punto
l'intera orchestrazione di un libro. E, per me, ogni libro è una
partitura musicale. La musica è parte fondamentale, per non dire tutto,
della letteratura che conta (e non solo della poesia, ma anche della
narrativa), perché la parola che “suona” è la parola più capace di
rivelare la realtà. E la realtà è difficile da individuare. In genere,
chi ci informa sulla realtà si ferma alla superficie, all'apparenza…
l'evidenza è un inganno di cui ci dimentichiamo. Solo chi va oltre
l'evidenza può dirci qualcosa sulla realtà. Se ne sono accorti anche
gli scienziati, che si occupano ormai della realtà così detta non
fattuale, quella appunto che sfugge ai cinque sensi. Lo scrittore
che conta non è quello che usa gli occhi (per descrivere), ma quello
che usa l'immaginazione (per rivelare). In questo senso, anche la
memoria è qualcosa di ambivalente. Pensare che sia solo una risorsa
è sbagliato, perché la memoria è anche un pericolo e in ogni caso un
limite. Basterebbe pensare al nostro cervello e alla sua istintiva
necessità di dimentica il più possibile… o ai nostri computer che,
caricati nella loro memoria, diventano lenti e incapaci di collegamenti.
N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea?
Raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari
tipo il Campiello, il Repaci
P. R. Il meglio della nostra letteratura contemporanea è ancora
“segreto”. Per quello che dicevo più sopra: in Italia, i media, gli
editori, i premi, si occupano quasi esclusivamente della serie B e C.
E la cosa si è accentuata negli ultimi 15/20 anni. Confondere ciò che
si vende con ciò che conta, creativamente è sempre un errore imperdonabile.
Sul piano commerciale, nessuna obiezione, rispetto a una legge di mercato:
l'editore deve avere un suo guadagno. In genere, si usava (e si usa ancora
tra gli editori stranieri) impiegare parte del guadagno per pubblicare ciò
che si vende meno ma vale di più. Ma la cosa più drammatica e, insieme, più
ignobile è che media, editori e premi italiani presentano come letteratura
di qualità merce di seconda e terza scelta.
N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o
dell'arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che
cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?
P. R. In letteratura, come in politica, come in ogni altro aspetto
di questa nostra Italia martoriata, bisognerebbe liberarsi da quel
vincolo mafioso di cui parlavo. Cosa non facile, per non dire impossibile,
vista la metastasi malavitosa che ha invaso quasi tutto l'organismo del
nostro paese.
A CURA DI NAZARIO PARDINI
in nazariopardiniblogspot.it 1 giugno 2012
UN AMORE METAFISICO: INTERVISTA SU “AFFARI DI CUORE”
- Affari di cuore: poesia come apertura nei confronti del prossimo,
dell'amato in senso esteso, o esame di coscienza per districarsi l'animo?
L'amore è una forza capace di trascinarci fuori da noi stessi, dal
nostro egocentrismo e dal nostro egoismo, liberandoci nello sforzo
tutt'altro che facile di congiungerci a un'altra parte. Attraverso
quella forma di "cannibalismo" reciproco che è l'amore dei corpi, si
approda magari inaspettatamente all'amore tra persone. L'esperienza
della vita attraverso l'amore riesce a compiere il salto dal “prendere
per sé” al “dare di sé”, sia pure in mezzo alle contraddizioni inevitabile
dell'ex-sistere, cioè del balzare fuori di sé.
- Si avverte nei suoi versi, ed in particolare in questa raccolta,
un richiamo alla sacralità della poesia, ai mantra indiani, ai riti
primordiali delle origini dell'uomo. Poesia è preghiera del laico?
Nella mia esperienza, è la vita stessa ad essere sacra in tutto
ciò che la riguarda, nel suo stesso fiorire ed espandersi, al di là
delle religioni storiche. E di certo la parola della poesia, per il
fatto di essere la pronuncia necessaria e sufficiente di ciò che si
manifesta rivelandosi, si può considerare una preghiera laica. Anche
quando sceglie il sottotono o l'ironia (ironia che, del resto, è la
vera musa della modernità e l'inevitabile risposta uguale e contraria
della frantumazione della coscienza). A maggior ragione, nella pronuncia
dell'amore. I miei modelli, in fondo, vengono da lontano e, guarda caso
dalle tradizioni sapienziali. Oltre ai mantra, penso per esempio al Cantico
dei cantici… e non mi dimentico che in quasi tutte le lingue antiche,
come nell'aramaico, il verbo “conoscere” significa appunto l'unirsi dei
corpi nell'amplesso. La conoscenza, per gli uomini, non può mai prescindere
dalla loro corporeità.
- Nei suoi affari del quotidiano, a tratti anche espressione delle
consuetudini amorose, il confine tra immaginazione e vissuto si perde.
L'una si confonde nell'altro, quasi la realtà abbia due volti coincidenti
ed opposti al tempo stesso, che si completano ed annullano in uno, unico…
Come diceva Roland Barthes, la naturalezza è il massimo degli artifici.
Perché quello che chiamiamo "naturalezza" passa attraverso la più
sottile delle operazioni possibili. O, come diceva Fernando Pessoa:
il poeta è un "fingitore" e finge così bene da rendere più autentici
i sentimenti come l'amore o il dolore. Io sono un fingitore, appunto:
non sono uno scrittore autobiografico, certo, faccio riferimento alla
mia esperienza di vita, ma mi rovescio sempre nelle vite degli altri.
Anche in questo caso, raccontando il percorso ambiguo, contrastato,
drammatico, ma salvifico dell'amore.
- La «stabile ferita» di pag. 52, causata da un amore insoddisfatto
nella continua attesa dell'amato, può essere la grazia che ci spinge ad
«un'altra vita»?
Come nella pratica mistica, le “ferite”, anche quelle fisiche e
addirittura autoprodotte (con la forza della mente come le stimmate o
con gli strumenti di autopunizione quali la corda o il cilicio) sono
sempre occasioni di grazia e di crescita, in un salto che ti spinge a
non giacere su te stesso nell'apatia o nella depressione, ma ad aspirare
appunto a un'altra vita, intensa, forte, autenticamente viva.
- Sapendo del periodo di studi che ha trascorso in America,
ho ritrovato nel suo relativismo morale il Sartre del Dopoguerra:
i continui doppi sensi che fanno riferimento alla sfera erotica,
sono provocazioni o solo l'accettazione dei nostri istinti?
Provocazione, no di sicuro. Accettazione dei propri istinti,
sì, ma nel senso della pienezza della nostra esperienza di vita,
come pretende l'amore. Da questo punto di vìsta, nella mia scelta
c'è anche un moto di reazione a un'altra reazione. Mi spiego. L'Italia
è il paese del melodramma, per lunghissimo tempo l'unica nostra forma
di cultura nazionale. Probabilmente proprio come reazione all'eccesso
dei sentimenti che proponeva, i poeti italiani moderni si sono tenuti
lontani dal sentimento per eccellenza che è l'amore, lasciandolo ai
cantautori. C'è naturalmente qualche eccezione significativa, come ad
esempio Umberto Saba. Ma i pochi che ne scrivono, lo fanno da una
posizione così rarefatta e intellettualistica da risultare inattendibili:
come lo stesso Montale, che si rivolge a "donne dello schermo" conficcate
dentro una fumosa memoria avulsa dalla fisiologia dell'amore e da quel
salto nel vuoto che l'amore pretende. I poeti considerano questo tema di
serie "b": da giovane ho avuto anch'io questa tentazione snobistica.
Ma, per fortuna, mi sono accorto per tempo che non si poteva rinunciare
a dare espressione poetica alle emozioni dell'amore in tutta la loro globalità.
- La sua ironia, cioè il non prendere troppo sul serio la realtà
che la circonda, concede una salvezza a questo bisogno inguaribile di
possedere l'altro? O forse è proprio il momento dell'amplesso ad essere
più vero dei tanti significati che l'uomo indossa?
L'ironia vera corrisponde sempre alla consapevolezza di chi sa che
le cose non sono mai come sembrano. Chi si ferma all'abbaglio dell'apparenza,
il così detto realista, è un ingenuo: si lascia ingannare dall'apparente
chiarezza di un messaggio che va invece sempre decifrato. Perché la verità
riposa nel retroscena, non è mai nelle cose, ma appunto nel linguaggio che
le spiega. E, appunto, è possedendo l'altro che si capisce l'impossibilità
del possedere. Si fa la scoperta paradossale: che si comincia a possedere
solo nel momento in cui ci si dà… la legge dell'inversamente proporzionale.
Per cui, fin dalle tradizioni sapienziali, solo chi non si prende troppo sul
serio è veramente serio.
- La raccolta è carica in absentia; è pregna di silenzio nell'aspettativa
che suscita nel lettore di liberarsi dall'ingombro del corpo, totalizzante.
Come ha dosato queste pause?
Per me non c'è una differenza sostanziale tra poesia e narrativa.
Credo nella mescolanza e nell'ibridazione, perché elementi dell'uno e
dell'altro genere si intrecciano sempre nella mia scrittura. Certo, la
poesia persegue poi una economicità di parole che non è quella della
narrativa. Ma per me contano i modi fondamentali, cioè l'allusione e, dunque,
il dire meno che si possa; e la musica, cioè il ritmo che trascina. Dunque,
la pagina di poesia per me è una partitura musicale tout court. Perciò le pause
sono fondamentali e sono sempre pause di ritmo. Così il silenzio diventa
un'estensione amplificata del senso (oltre che dei sensi), proprio come
nella pratica musicale. A maggior ragione, nella poesia d'amore, il corpo
che scompare diventa ancora più totalizzante, perché il più alto grado di
presenza è l'assenza. È il modo per far parlare il corpo, un po' come
nell'esperienza mistica, che potenzia appunto il corpo in absentia, arrivando
a cancellarlo.
- Prendendo in esame la struttura delle liriche, quando inizia a scrivere
sa già dove andrà a finire? Quanto è lavoro conscio e quanto inconscio?
Per me l'azione creativa della scrittura nasce sempre da un'ossessione
mentale: un impulso musicale che, nella mia mente, trascina le parole fuori
dai cunicoli in cui stanno acquattate. L'ossessione musicale corre portandosi
dietro le parole, che dunque continuano ad andare a lungo dentro di me prima
di trovare la loro pronuncia a voce alta e solo più tardi la loro trascrizione.
Il nucleo fondamentale è perciò già formato e compiuto quando arriva a
materializzarsi nella scrittura. Poi, però, continua ad essere letto e
pronunciato a voce alta per anni fino a che l'orecchio non decide che è come
doveva essere, anzi che suona come doveva suonare.
A CURA DI MATTEO BIANCHI
in "Letteraria", Alegre, n. 5 - maggio 2012
DIALOGANDO A PROPOSITO DI “NATURA MORTA”
«Non mi volto indietro a riconsiderare con nostalgia quello che non
c'è più». Così lei negli «Appunti per una ipotesi di poetica» che concludono
Natura morta (Aragno 2012). Una affermazione che non esclude o comunque
non impatta con la spinta a recuperare il tempo… La memoria, lei scrive
in queste pagine, «è in essere», e strettamente correlata alla conoscenza
come campo di ricerca individuale. L'identità è diversamente configurata
nella sua opera in versi o in prosa: in L'isola e il sogno essa era affidata
alla memoria, cioè alla attitudine del protagonista a riconoscersi per ciò
che è stato – «siamo quelli che siamo stati e che sono stati altri prima di
noi», lei tornerà a ribadire nelle illuminanti e incalzanti osservazioni
intorno alla sua poetica. In Piccola colazione la questione dell'identità
era in qualche modo legata all'agnizione di sé nei luoghi noti o protettivi,
e una conferma di questo assunto figura negli «Appunti»: «forse l'identità
sta nel nostro coincidere con le cose, nel portarcele addosso come la pelle».
C'è un nesso tra queste due prospettive della dimensione identitaria?
Ruffilli
Sì, c'è. In una forma sempre dinamica e perfino contraddittoria. Ma,
del resto, la contraddizione è il principio costitutivo della realtà.
Ciò che poi sfugge alla capacità del nostro linguaggio di esprimere appunto
la coincidenza degli opposti, cioè il meccanismo contraddittorio di tutto
ciò che è e che ci riguarda. Anche un'identità, per forza di cose, è dunque
contraddittoria. Il che non comporta un limite e meno che mai una censura.
Perché l'ambiguità è l'energia stessa della vita, probabilmente inspiegabile,
per lo meno con il criterio logico della nostra ragione. È questo il motivo
fondamentale per cui, come pensava Pessoa, la scienza come la pratichiamo oggi
non sarà mai in grado di spiegare davvero il mistero. Ma la scienza, naturalmente,
elaborerà col tempo metodi nuovi, più elastici e meno rigidi, che abbiano
molto più a che fare con il vuoto e con l'inafferrabilità del così detto reale. Chissà…
Per l'uomo simbolista non funziona la distinzione tra attività
teoretica e pratica. È questa una delle invarianze – e forse anche uno dei
fondamenti – della sua poetica?
Ruffilli
L'uomo è simbolista naturalmente o, se si vuole, innaturalmente (visto che
è l'unico essere che va contro natura). E, per questa sua caratteristica,
niente mai per l'uomo è quello che è, o che appare. È sempre anche altro.
Nell'esperienza degli uomini, fin dal principio, tutto rimanda sempre ad altro.
E, in questo misterioso rimbalzo, sta appunto la capacità che da subito si mette
in moto nell'operatività dell'uomo prima ancora di qualsiasi intenzione teorica.
Dietro a questo impulso che gli viene da chissà dove, istintivamente l'uomo elabora
il linguaggio: cioè, simbolicamente, il dire una cosa per intenderne un'altra.
L'inflessione vocale di Natura morta trasmette al lettore un senso di
calma infinita. Il modularsi talora persino ipnotico dei versi – benché nelle
frequentissime spezzature – si accorda con il respiro della vita, ritmato
all'unisono con la sua parola argomentante sul tempo e sul fluire del moto
determinato dal tempo. Quasi una antistrofe della fuggevolezza e dell'umorale
e in generale dell'imperformativo che marcano i nostri anni con il rischio
di interdire ogni prospettiva infuturante. Una intonazione, pertanto, che
tende a razionalizzare la morte – se il tempo trattiene anche solo «un lembo
della parte // sua futura». Ma l'esito, inoltre, del riconoscimento di uno
stato di cose originario e perenne, dov'è inconcepibile ogni illusione di
trasvalutarlo. Di qui la distensione, la pacatezza – proprietà eminenti della
unitonale voce narrante –, parole che evocano la quiete, promuovono «l'andante
cadenzato», designano «la regola del mondo»: acquisizione che si coniuga con
l'accettazione di uno status dove nulla pare casuale e tutto sembra essere necessario
(«il caso è un nome / della necessità»). Come scritto nella nota editoriale, che
parla dei versi di Natura morta nei termini di «una serrata rappresentazione
(ed analisi) sulla razionalità della natura e sulla naturalezza della storia».
In questa cosmogonia «necessaria» in che modo opera l'immaginazione, altrimenti
da lei designata «finzione», ossia il «linguaggio per cercare» – il solo,
elaboratissimo, percorso per un accesso sostanziale a quella realtà situata
«oltre la finta riconoscibile / sagoma del mondo», quello «stato eterno / dentro
la vita / disperso e frantumato / dalla vista»?
Ruffilli
L'immaginazione è l'elaborazione via via più sofisticata di quella capacità
di intendere qualcosa pronunciando qualcosa d'altro. È, insomma, una forma
di conoscenza profonda tutt'altro che casuale o arbitraria. In concorrenza
con la prassi cognitiva della scienza. È, in fondo, quello che riconosceva
appunto uno scienziato di grande qualità come Einstein, che parlava dell'
immaginazione come della possibilità di catturare la verità sfuggente delle
cose per poi proporla alla dimostrazione della ragione. L'immaginazione arriva
appunto a «fingere», cioè ad afferrare dipingendola, a toccare dandole forma,
quella verità altrimenti inafferrabile. Ecco il primo senso e valore della
finzione, che ci riporta a quella prospettiva simbolica di cui parlavamo, del
dire una cosa per significarne un'altra. La finzione è stata fin da subito
fondamentale per l'uomo, non solo o tanto per una sorta di legittima difesa,
ma per conoscere. Del resto, lo stesso metodo scientifico si fonda sulla
finzione nel tentativo di mettere a nudo la verità: replicando artificialmente
ogni fenomeno, cioè ripetendolo fuori dalla realtà, in laboratorio.
Rispetto ad Affari di cuore, dove imperversava una soggettività
dirompente (che abbiamo visto afferire in una configurazione paradigmatica,
deliberatamente o di riflesso legata alla dimensione del poetante–pensante),
in Natura morta, come tempestivamente notava Niva Lorenzini (riferendosi alla
esigua parte di testi che nel 1984 uscirono in altra stesura su «Il Belpaese»
con il medesimo titolo), si verifica «l'esclusione dell'io, del punto di vista
soggettivo e privato»; nell'apparente sofisma del convergente–divergente,
dell'effettuale–ineffettuale vediamo scomparire ogni attinenza a pertinenze
dell'artifex per una aforisticità – se si escludono le questioni e le perplessità
sollevate negli «Interrogativi» –, pacata e pervasiva. I diversi «Libri» in
esergo ad alcune sezioni di Natura morta, nonché le altre epigrafi, figurano
come anonimi e concorrono anch'essi alla impersonalità che ipersegna quest'opera.
In questi segmenti del libro si è ispirato a qualche autore in particolare?
Ruffilli
Le citazioni sono tutte autentiche e relative alla produzione parallela
sia dei testi taoisti della tradizione che a quelli canonici dei Libri Veda
con le loro cosmogonie. Ma non c'è nessun autore particolare dominante e
neppure una tradizione specifica prioritaria. C'è, naturalmente, tutta la
vasta mole delle mie letture, di ogni genere e tipo, non solo poetiche, ma
anche specificamente filosofiche, dal passato remoto fino almeno ad Adorno.
Un interesse per il pensiero, non separato né separabile dalla musica.
In una chiave che, senza rinunciare alla ragione, non rinuncia neppure
all'immaginazione. Con quella possibilità che la poesia di pensiero consente,
di uscita massima da sé, dal proprio cerchio chiuso dell'io balbuziente, e
dentro quella sinfonia placata che si diffonde senza quasi più ostacoli
e barriere.
Poesia e dimensione musicale, un binomio onnipresente nella sua opera;
il quale sembra assumere anche la funzione di infondere il senso dell'unità
delle voci contrarie, di una concordia discors, o di una discordia concors,
come nelle cosmologie rinascimentali…
Ruffilli
Sì, per me, in poesia la musica è tutto e il resto viene dopo. Ammesso
che si possano separare le cose e, di certo, non è possibile. È una
nostra deformazione quella di separare, a maggior ragione in un'operazione
creativa, tra forma e contenuto, come del resto tra concreto e astratto,
apparente e reale… Trainante, per me, è sempre un'ossessione mentale di tipo
musicale, che si innesca e che mi trascina materializzando le parole come note
in una partitura. Al di là dell'interferenza continua della ragione, è comunque
l'orecchio a dominare la scena. Perciò, sì, la musica fa da elemento unificatore,
per una coerenza armonica che è fatta anche di cocci e di vetri rotti.
In Natura morta, si ragiona su uno stato
di cose: in una condizione così configurata, quale margine di scelta è concesso
all'individuo?
Ruffilli
Lo stato delle cose è uno stato oscuro e fluttuante, dove l'individuo ha
una parte attiva inevitabile. Non si spiegherebbe altrimenti, fin dalla sua
comparsa sulla terra, l'istinto dell'uomo all'artificio, cioè l'istinto a
impadronirsi della realtà, in tutti i modi e con tutte le conseguenze anche
negative. L'individuo ha più scelta di quanto non appaia a prima vista… Vuole
sapere se credo nel libero arbitrio? Sì, nonostante tutti i condizionamenti
e tutte le costrizioni. Ed è da sempre che l'uomo, forzando la situazione,
esercita la libertà di decidere, magari sbagliando e perfino a suo danno.
Da un certo momento in poi, l'uomo ha cominciato a interrogarsi sul suo
rapporto con lo stato delle cose e a darsi delle possibili risposte. Ai
due estremi, troviamo da una parte la convinzione che la realtà sia pura
apparenza rispetto alla quale si sia chiamati ad esercitarsi come in una
dolorosa palestra, dall'altra la convinzione che la realtà sia il prodotto
del puro caso. Sia gli uni che gli altri, comunque, non sembrano affatto
rinunciare al margine di scelta…
La nozione di «vuoto», una delle sue «parole che contano»,
in Natura morta, dà l'impressione di esulare
dall'orizzonte della parte più appariscente di Affari di cuore e di precedenti
sue dichiarazioni – nelle quali lei si riferiva alla vacuità inerente all'esistere –,
viene riabilitata e cambia radicalmente di segno…
Ruffilli
Il vuoto che lascia un amore finito o la scomparsa di una persona cara
ha poco a vedere con la nozione di vuoto che riesce ad elaborare una
persona nel corso della sua vita. Certo, dalle singole esperienze di
privazione e nel rapporto con ciò che non c'è o non c'è più, vengono
comunque degli stimoli che ti aprono a considerazioni altre e nuove.
Già il fatto di sperimentare sulla propria pelle l'effetto elastico per
cui si scopre che il più alto grado di presenza è l'assenza induce
(o dovrebbe indurre) alla riflessione sulla natura ambigua dello stato delle cose.
Ci si dimentica di chi (di ciò che) è presente e si ha nostalgia di chi (di ciò che)
è assente… Poi si cominciano ad aprire gli occhi, se non altro prendendo atto
che ogni pieno contempla inevitabilmente il vuoto. Ma ci si fa ancora più avanti,
scoprendo per esempio che un bicchiere o una bottiglia contano appunto per il loro
vuoto o accorgendosi che si vive nel vuoto della casa. I pensatori orientali ne
avevano da sempre evidenziato l'importanza. I filosofi occidentali, fino a Kant,
a suon di ragione ne escludevano invece l'esistenza. Gli scienziati, per parte loro,
hanno scoperto non solo che il vuoto esiste ma che ha tanti aspetti e varietà che
definire nell'ottica del contraddittorio è ancora poco: antimateria, buchi neri…
Il vuoto e l'assenza sono, paradossalmente, ciò che consente la presenza e la vita.
Ferme restanti tali ricognizioni, in Natura morta, il vuoto ha peculiarmente a che fare con l'«incontro trascendente /
con la totale alterità», nella misura in cui in questa sua prospettiva è
l'assenza della vita a fare da «stampo» e da «impronta» al fattuale e all'essere
vivente. Come la morte dà un senso alla vita e al suo linguaggio, così il lutto
«chiama la vita / non altra morte», lei asseriva in La Gioia e il lutto («l'orma,
/ appassita / eppure intanto rifiorita, / di ogni cosa», leggevamo). Di qui
la portata – sotto il profilo sia individuale che universale – della iperbolica
diade «gioia e lutto», tale da indurre Pier Vincenzo Mengaldo a suggerire
in prefazione di leggere il primo degli elementi del binomio «non solo secondo,
ma terminale», ad emblema del senso ultimo del suo libro sull'Aids. Che idea ha
lei del trascendente?
Ruffilli
Il trascendente è appunto tutto ciò che trascende l'evidente, il toccabile,
il qui e adesso. Ma, indipendentemente da ciò che uno crede o pensa, la
tendenza a trascendere è una caratteristica costituzionale degli uomini.
È un istinto, un'inclinazione, un impulso, una disposizione, cha va al di
là di qualsiasi consapevolezza o fede. È ciò, appunto, che ci ha resi simbolisti
fin da subito, a differenza di tutti gli altri esseri viventi. Qui non serve
scomodare le religioni storiche, che hanno cercato di dare confini appunto storici
a tale inclinazione. L'uomo aspira all'oltre, è attratto dall'oltre, vi aspira
come fosse trascinato da una molla, da un elastico che lo fa rimbalzare
metaforicamente verso l'alto. Siamo nel mistero della vita, naturalmente.
E dobbiamo fare i conti con l'altra faccia della vita, la morte. Al di là di
qualsiasi considerazione, l'istinto ci suggerisce qualcosa che appare ancora
una volta contraddittorio, che le cose non sono come appaiono, che c'è altro
che continua oltre ciò che sembra cessare.
Lei scrive: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si
trasforma senza cessare di essere». La metamorfosi – ove essa non sia
una ripetizione dell'uguale – è sempre rigerminazione, rigenerazione?
La natura morta richiama necessariamente altra vita, partendo dal suo
assunto per il quale «solo ciò che si trasforma è destinato a durare»?
Ruffilli
Ce l'abbiamo sotto gli occhi, ma non ce ne accorgiamo: che tutto si
trasforma, a partire da noi stessi. È il meccanismo stesso della vita:
quel movimento inarrestabile per cui il processo consiste appunto nel
suo continuo modificarsi. Vivere, insomma, è morire continuamente.
Quante filosofie e religioni hanno metaforizzato questa metamorfosi
in atto di cui siamo parte, riconoscendo che tutto rinasce dalle proprie
ceneri. Un'evidenza, certo, destabilizzante. E, per reazione, ecco nella
stragrande maggioranza dei casi, l'impossibilità di credere che solo ciò
che si trasforma sia destinato a durare. L'uomo infatti è conservatore e
vorrebbe preservare nel tempo se stesso e il resto che gli sta a cuore…
Ma come si fa a conservare ciò che si trasforma? Evitandogli di modificarsi.
Cioè impedendogli la «resurrezione». Con un atto, insomma, di desertificazione.
Il secondo dei due testi inaugurali di Natura morta, «Terra»,
presenta una struttura innodica (anche in virtù dell'iterazione anaforica)
mentre trasmette una eco della romantica natura naturans, senza tuttavia i
romantici cedimenti nichilistici…
Ruffilli
L'idea di natura che posso testimoniare è quella di un «insieme» di cui
l'uomo è parte, corpo complesso e contraddittorio che rende possibili
le condizioni di vita, senza per altro assicurarle. Fin da subito,
istintivamente, l'uomo si è sentito a rischio dentro questo corpo
indifferente, pieno di risorse ma anche di rischi. E istintivamente, fin
da subito, l'uomo ha messo in campo la sua capacità di artificio, per
impadronirsi di una realtà dalla quale si sentiva compresso e schiacciato.
È in quest'ottica che, per quanto mi riguarda, credo oggi che la natura
vada sì difesa, ma anche lasciata alla sua metamorfosi e nel limite del
possibile corretta, perché non è affatto la madre benefica che qualcuno
sogna che sia.
Il finale spostamento – nel «Piccolo inventario delle cose notevoli»
– della riflessione al corpo vivente costituisce l'inveramento dell'astrazione
nel concreto, la sintesi avvenuta tra spirito e materia, tra alterità e
immanenza, in una compagine dove è evidente la valorizzazione della medietas,
della misura?
Ruffilli
Sì, lei ha colto l'intenzione, compresa la valorizzazione della misura.
Misura come operazione con cui si confronta una grandezza con un'altra.
Ma misura anche come concetto connesso con il problema dell'integrazione,
cioè come funzione che riconduca all'insieme. Quello che lei chiama
inveramento dell'astrazione nel concreto, sintesi di spirito e materia,
di alterità e immanenza.
Resta il mistero, il diaframma anche quotidiano nel quale
«lo sguardo umano» si infrange: «Sicuri dell'effetto / che non cadrà il muro
/ tra il cercatore e il suo desiderato / né tra l'amante / e l'oggetto
del suo amore»…
Ruffilli
Contro ogni pretesa della nostra curiosità, il mistero è la garanzia
paradossale della vita. Meccanismo trainante, elastico di ritorno,
vuoto appunto da riempire. È il buio rispetto al quale noi cerchiamo
di accendere una luce, facendo l'esperienza di nuovo contraddittoria
che, più luci accendiamo, più cresce e si infittisce il buio. Meccanismo
che sanno bene gli scienziati: il non sapere ci spinge a cercare e a
spiegare, ma quanto più troviamo e spieghiamo tanto più si allarga il
campo della nostra ricerca.
La contaminazione di generi letterari strutturalmente eterogenei
viene diffusamente praticata nella sua opera, quale reificazione di
quello che lei ha definito «principio di contraddizione». Inoltre,
con il suo argomentare per ossimori lei sembra voler sorprendere l'istante
non esclusivamente tetico. Lo schema ossimorico diviene lo strumento per
presentificare la dialettica ambivalenza degli opposti, quella varia unitas
che nel suo libro è invocata pressoché pervasivamente. La «necessità del
paradosso», la consustanzialità e l'immedesimazione di poli contrari
tutt'altro che inassimilabili in virtù del loro vincolo necessario, insomma…
Tuttavia, questa inflazione ossimorica – che non diminuisce, anzi incrementa
la pregnanza degli effetti – potrebbe anche rifarsi a un altro dei suoi motivi
ispiratori, quello della pienezza prossima e distante, della centralità del
«segno» e del «dato» di Camera oscura, del «flash inaspettato», della traccia
intravista e persa, della condizione – in Natura morta – dell'«eppure non compiuto»,
o della cosa «che di colpo cessa / di essere in procinto», dell'intermittenza o
della manifestazione sempre parziale dell'evento?
Ruffilli
L'ossimoro è, da sempre, un «naturale» approdo del linguaggio della
poesia allo sforzo di esprimere quello stato contraddittorio della
realtà di cui si è qui più volte detto. È, in fondo, uno dei pochi
resti del linguaggio paradossale che usava la tradizione sapienziale
di libri come i Veda o il Tao, che oltre tutto erano prevalentemente
testi poetici. Se la realtà è contraddittoria, come si può far coincidere
una cosa e il suo contrario? Con l'ossimoro, appunto. Ma per me,
naturalmente, vale anche l'altra opportunità che l'ossimoro consente,
quella di cui lei parla della traccia intravista e persa, dell'atto non
compiuto che di colpo ha smesso di essere in procinto di accadere. L'ossimoro
consente di attualizzare in essere ciò che non è o non è ancora, permette
all'evento di essere avvenuto e insieme di essere sul punto di avvenire.
Insomma, una serie di opportunità espressive che offrono all'ambivalenza
estrema della vita di trovare finalmente pronuncia.
Nei suoi versi lei afferma che ciò che è stato non muta ma viene
assunto in virtù del fatto che è già mutato. Aveva presente, a proposito
del mutamento, anche la sua prospettiva di Camera oscura (ripenso
soprattutto alle sezioni di carattere esclusivamente meditativo che si
frappongono ai gruppi di foto in versi)?
Ruffilli
Sì, il riferimento a Camera oscura è calzante.
Le parti che lei cita rientrano in una problematica che mi è sempre
presente e che, nel discorso fotografico, aveva trovato già le sue
ragioni nell'evidenza che ciò che è stato non muta ma viene assunto
in virtù del fatto che è già mutato. Basta pensare a una foto qualsiasi
e alla sua natura di «istantanea» che ha appunto catturato un istante
del soggetto fotografato. Quell'istante vi appare ormai immutabile,
eppure è evidente che la sua condizione è già mutata. E non importa
che la foto sia di un anno fa o di un'ora fa. Quell'istante ormai
immutabile è già mutato mentre si fissava. Tutto ciò che compare su
una foto riposa sul vuoto.
I versi di Natura morta, costituiscono – almeno esteriormente – l'estremizzazione della
formula mengaldiana della sua consuetudine a «pensare poeticamente».
È così? È possibile definire Natura morta un'opera filosofica in versi
in cui viene decostruito «il sogno di non contraddizione» attraverso un
percorso che ha di mira il rilevamento dell'«intima correlazione»
dell'apparentemente incoerente?
Ruffilli
È un fatto che per me la realtà conta solo se pensata. Mengaldo
aveva ragione e mi ha reso consapevole di un fatto che continua
sempre quando scrivo, che si tratti d'amore o di follia o di oggetti
apparentemente astratti come il tempo o il vuoto. Ma, nella mia
esperienza, niente in realtà è astratto. Il mio modo di essere è quello
che gli inglesi definiscono «in touch», a contatto. Ed ecco come la
realtà attraverso il tatto si materializza nel pensiero. Perciò per me
non importa che si tratti d'amore o di tempo o di vuoto o di qualsiasi
altra cosa: tutto ciò che tocco è la materia del pensiero. Ecco realizzata
l'intima correlazione dell'apparentemente incoerente.
In che termini la sua visione di sublime potrebbe costituire
una valorizzazione del sub limen? La sua formula dell'«inversamente
proporzionale» – per la quale, come lei scrive, «più basso è il tono
e più alto è l'effetto» – fornisce la possibilità di nominare ciò che
altrimenti sarebbe destinato a restare sotto la soglia? Secondo lei,
la poesia è sublime nella misura in cui approda, circoscrivendo, a una
sostantivazione?
Ruffilli
Giusta parola: sublimazione. Nel senso del far emergere ciò che nasce
dal basso, ma anche come trasformazione di una sostanza dallo stato
solido a quello di vapore. Proprio come fanno i mistici trasformando
i visceri in tensione spirituale, la poesia compie il prodigio della
parola che si accende (non importa il genere grammaticale). E si accende
proprio perché, per la legge dell'inversamente proporzionale, è leggera,
piena di vuoto e di assenza. Quel vuoto e quell'assenza che fanno da
risucchio per il lettore, spinto con forza verso ciò che è alluso.
E sulla linea della formula dell'«inversamente proporzionale»
è il suo modo di porsi al lettore, nel senso che meno enfatico è il
suo atteggiarsi – alle presentazioni dei suoi libri, ad esempio –
più si percepisce lo spessore della sua visione del mondo. Paradossalmente
solidissima, benché versata nello sgretolamento del suo verso
volutamente discontinuo e brevilineo che descrive nella sua ipotesi
di poetica, una versificazione per frammenti quale mimesi o comunque
semiotica dell'«incespicare» dell'io nella frantumazione pulviscolare
della modernità. La sua estraneità alla verbosità e all'enfasi roboante
che talora sembrerebbero alonare certi contesti costituisce unicamente
l'esito di una vocazione a farsi capire? O piuttosto sta a connotare un
modo di essere nel mondo e di relazionarsi all'altro da sé che non necessita
di pose o paramenti, ma si mostra nella sua evidenza e nella sua
rilevanza trasparenti e tangibili?
Ruffilli
Non è il problema del farsi capire che mi spinge a scrivere e a parlare
come scrivo e parlo. No, perché per me non si pone affatto il problema
di una comunicazione. Non scrivo per farmi leggere. Scrivo per me stesso,
dietro a un'ossessione della ricerca per la ricerca, in una chiave di gnosi
Del resto, non faccio lo scrittore professionale, che deve intrattenere
i suoi lettori. E neppure il conferenziere che si propone di coinvolgere
i suoi ascoltatori. Anche quando parlo in pubblico, come quando scrivo in
privato, vado dietro alle parole che emergono dal mio profondo. E il mio
profondo non può che far emergere quelle parole essenziali, in un discorso
balbuziente e smozzicato, che non si preoccupa affatto di un possibile
maquillage per rendersi più presentabile.
Nei suoi «Appunti» lei fa riferimento alla fotografia.
Sottoscriverebbe, almeno in parte, queste parole di Giuseppe Pontiggia
(tratte dal romanzo La grande sera): «Per capire che il mondo non è come
lo si immaginava può bastare a un adolescente qualche mese decisivo.
Ma per capire che non è come lo si è visto occorrono decenni. La seconda
maturità è un frutto amaro e tardivo, a volte tossico, ricco di acidi
che hanno il potere di trasformare una fotografia a colori in una radiografia»?
Non potrebbero funzionare da didascalia, se non altro a un paio di
«parentesi» di Diario di Normandia (a Honfleur, Calvados: 11 agosto, e a Saint Aubin, Calvados: 14 agosto, ad esempio)?
Ruffilli
Sì, senz'altro. Liberarsi dagli abbagli della vista è una delle cose
più difficili. Siamo naturalmente vittime degli inganni dell'evidenza.
È uno degli aspetti più deleteri della così detta realtà. Occorre appunto
l'immaginazione: cioè la capacità di entrare dentro l'immagine, perché
la sua verità riposa nel retroscena, oltre l'apparenza.
A CURA DI ELISABETTA BRIZIO
in Bibliomanie.it ottobre-dicembre 2012
IL POETA E LO PSICOTERAPEUTA: dialogo con Paolo Ruffilli
Il privilegio dei poeti
Nello studio analitico più lungo e completo che Freud abbia dedicato ad una singola opera d’arte letteraria - e cioè al racconto Gradiva: Ein pompejanisches phantasies stuck (1903) di W. Jensen - leggiamo che il
vero poeta «... è sempre stato il precursore della scienza e anche della psicologia scientifica».
Là dove psicanalisi e psichiatria ufficiale del tempo discordano, è alla scienza nuova che nel 1906 le rappresentazioni del racconto di Jensen danno un avallo impressionante perché spontaneo; mentre la scienza accreditata «non regge di fronte all’opera del poeta, lascia sussistere un vuoto, che invece troviamo riempito dal poeta. Probabilmente, noi e lui, attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con un metodo diverso, quindi o entrambi, il medico e il poeta, abbiamo in egual modo frainteso l’inconscio, o entrambi l’abbiamo compreso esattamente».
In quale modo dunque il poeta era pervenuto allo stesso sapere del medico? Le risposte dirette che Freud prova a dare a tali domande sono tentativi di soluzione psicologica del sapere del poeta. Le verità formulate dalla psicanalisi venivano a colmare un vuoto essenziale nel sapere dell’uomo su se stesso: quel vuoto che ogni scienza ufficiale aveva lasciato sussistere. Era in un sapere asistematico e periferico, vagante nel discorso dei poeti, che si toccavano le punte massime di approssimazione alle verità della psicanalisi.
Psicologia e letteratura: quale punto d’incontro? Il punto d’incontro è il campo a cui queste due discipline rivolgono il loro interesse: l’essere umano nella sua complessità.
Per Carlo Bo «la letteratura è forse la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, se è vero che la scienza e l’arte procedono di pari passo nella loro ricerca e nella loro costruzione, allora tutte le volte che ci avviciniamo ad un’opera letteraria possiamo e dobbiamo chiederci cosa ci fa conoscere? Quali aspetti ci rivela? Conosciamo dopo la lettura qualcosa di più e di meglio su di noi, sugli altri, sui rapporti tra gli uomini, sulla loro storia, sui loro atteggiamenti nei confronti della natura?». Accanto alle conoscenze apprese per via analitica grazie alle scienze, l’uomo possiede anche conoscenze di cui si può impadronire per via sintetica attraverso la letteratura e l’arte. In altre parole, «la letteratura non solo è strumento di conoscenza, ma è essa stessa conoscenza».
L’arte e la letteratura dunque ci forniscono conoscenze, ci fanno conoscere il mondo reale, ci fanno conoscere tipi di uomini, di situazioni sociali, ambientali. L’arte e la letteratura ci forniscono interpretazioni della realtà non mediante teorie e spiegazioni scientifiche, bensì attraverso colori, forme, suoni, drammi, poesie, favole, ecc. La letteratura, ad esempio, ci fornisce conoscenze sull’uomo attraverso la
costruzione di tipi-ideali. Dire che una persona è un ‘Dongiovanni’, un ‘Don Abbondio’ o un ‘Don Chisciotte’, equivale a fornire precise conoscenze sul suo modo di essere.Del resto, romantici, realisti, naturalisti e simbolisti affermarono con ragioni diverse e contesti differenti che l’arte è vera e più profonda
conoscenza.
II celebre linguista Noam Chomsky ha sostenuto che «si imparerà sempre più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica». L’uomo ha imparato a conoscersi e a conoscere il comportamento dei suoi simili ben prima che la sociologia e la psicologia nascessero come discipline scientifiche e l’ha appreso dalle poesie e dalle tragedie, dai romanzi e dalle fiabe. Romanzieri e poeti, in modo più efficace, persuasivo e convincente degli scienziati, hanno affidato alle opere scoperte sull’uomo e sulla società. Di questa tesi si è fatto sostenitore in tempi recenti Nelson Goodman. A suo avviso, la nostra immagine del mondo è il frutto delle ricerche degli scienziati e nel contempo, delle opere degli artisti. «Opere di finzione in letteratura e opere analoghe nelle altre arti, giocano un ruolo assolutamente dominante nel nostro fabbricare mondi; i mondi che abbiamo li ereditiamo dagli scienziati, dai biografi o dagli storici quanto dai narratori, dai drammaturghi, dai poeti o dai pittori».
Poesia e Psicoterapia
In questa riflessione vorrei indagare in maniera aperta, ma non assolutamente esaustiva, le connessioni teoriche tra queste due ‘arti’, ma anche interrogarmi su quali siano le implicazioni di questi presupposti nel percorso formativo del mestiere del poeta e in quello dello psicoterapeuta, quali i punti di incontro e quali le differenze. Per far questo ho ritenuto che il modo migliore fosse dialogare con due dei miei maestri in quella che è stata la mia grande passione, la poesia e quello che è diventato il mio lavoro, lo psicoterapeuta. Paolo Ruffilli e Luciano Tonellato sono state persone importanti nella mia formazione come uomo e come professionista, accompagnandomi sin da ragazzo nel mio percorso di crescita. In questo dialogo ho deciso di iniziare con Paolo Ruffilli, rispettando l’ordine di nascita della poesia rispetto alla
psicoterapia.
D: Paolo, nel nostro approccio di lavoro le prime sedute vengono condotte a ‘briglie corte’, ma in questo caso vorrei chiederti di iniziare la nostra conversazione con delle tue libere considerazioni a proposito della poesia.
R: Il linguaggio della poesia assolve alla funzione di cicatrizzazione. E non solo il linguaggio della poesia, naturalmente. La parola è forse la più antica terapia che l’uomo abbia perseguito riguardo alla propria salute profonda, quella mentale. Già ai primordi del linguaggio, quando il suono cantilenato era parola magica e scaramantica. La poesia conserva questa virtù antichissima. La scrittura in generale è una forma di autoanalisi di grande qualità. Perché la parola arriva là dove non si riesce a giungere con nessun altro sistema, né bisturi né strumento d’altro genere. E ci arriva dietro a quel suo impulso musicale che ha la velocità quasi della luce e una capacità di penetrazione istantanea, come più in generale la musica, in virtù della natura indifferenziata del suo linguaggio. Ma la parola ha in più, dentro di sé, il taglio della scissione che ha separato il significante dal significato e, dunque, dietro all’emozione corre a stanare le ragioni di quello che si sente. L’Io, perdendo sempre più la sua unità interna, ha fatto l’esperienza del suo frantumarsi (dell’occhio, della voce...). Che altro possono produrre la vista scomposta, la voce balbuziente, l’orecchio sincopato? Il ‘frammento’ è la dimensione autentica della nostra epoca, anche (soprattutto) creativamente. Nelle arti visive, così come nella musica e nella letteratura. E non di più nella poesia rispetto alla narrativa (è Adorno che definisce la Recherche di Proust «lo sprofondamento nel frammento»). I moderni vedono, sentono, parlano, scrivono per frammenti. Con tutto quello che ne consegue sul piano della ‘sintassi’ (che ha una sua identità a mosaico o a patchwork), del ritmo (con continue interruzioni e riprese). I musicisti, da sempre i più precoci, hanno modulato per primi il ‘suono’ di questa epoca, nuova per davvero sotto molti aspetti, in primo luogo per una diversa percezione del tempo. E qui si porrebbe la questione del Tempo, fondamentale anche in poesia (una frantumazione è anche corrispondente a una mancanza di continuità temporale e modifica l’esperienza della memoria, perché il passato non è più un’entità astratta fuori di noi, alle nostre spalle, il passato siamo noi e dunque il tempo verbale per significarlo non è più l’imperfetto, ma il presente). Non è un caso, infatti, che Proust lavorasse alla sua Recherche mentre Einstein elaborava la sua teoria della relatività. Per tutti, intanto, il tempo cessava come ‘contenitore’ e si rivelava sempre di più come una delle dimensioni in essere. La trasformazione evolutiva è ancora in corso (e coinvolge il cambiamento del nostro stesso cervello), ma con le loro antenne gli artisti se ne sono fatti interpreti presto, indipendentemente da una consapevolezza precisa. Del resto, la creatività ha sempre avuto e continua ad avere una sua parte incandescente ed eruttiva rispetto a cui poco possono (pur nella loro importanza) le teorizzazioni. In ogni atto creativo, nella composizione di forze attive e passive, di conscio e inconscio, di intelligenza e talento, si realizza un’unità fondante che rende priva di fondamento una questione come quella se sia prioritario il significante o il significato, se precedano i contenuti o le ragioni delle parole, il pensiero o la lingua. Del resto, io credo nella mescolanza come occasione scatenante e so
che il principio costitutivo della realtà (e, dunque, anche della poesia) è il principio di contraddizione.
L’uomo ha avuto tendenza all’astrazione fin da subito, appena comparso sulla terra. È questa la sua forza, ciò che gli ha consentito di arrivare dove è arrivato, senza essere cancellato da quel mostro indifferente che è la Natura. E proprio perché è un animale naturalmente (o innaturalmente, se si preferisce) capace di simboli, diventa artifex e comincia ad impiegare i suoi artifici per difendersi e conservarsi ‘artificialmente’ dentro una natura che lo schiaccia e lo cancella. L’uomo primitivo è già un intellettuale istintivamente e si sforza di ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla. I linguisti sanno che l’elaborazione del linguaggio risponde proprio a questa spinta inconscia del dare pronuncia musicale alle ‘parole magiche’ per entrare dentro la realtà e impadronirsene. E il linguaggio, come tutto il resto, nasce proprio dalla formidabile tendenza dell’uomo all’astrazione. Dunque, parlare di progressiva concettualizzazione e intellettualizzazione è parlare di un processo comunque in corso da sempre, coincidente con la ‘naturale’ (o innaturale) evoluzione del nostro cervello, che si è strutturato linguisticamente proprio per far fronte alla situazione e che elaborerà altre soluzioni per continuare a far fronte alle situazioni che cambiano. Ecco, non dimentichiamoci della metamorfosi in atto che è la vita. Solo ciò che si trasforma è destinato a durare, dunque perché pensare che qualcosa possa conservarsi rimanendo quello che era? Anche la poesia. Già Leopardi osservava che non è possibile, per i moderni, non ragionare scrivendo versi. Appunto. Che male c’è? La poesia è avventura mentale. Continua ad esserlo. E non si preoccupa di nient’altro che di essere fedele a se stessa. Senza curarsi troppo della ‘sostanza materiale’ dell’esperienza, forse perché oggi ha la coscienza che la materia è energia, anzi energia decaduta.
D: Ora vorrei entrare invece in temi più personali legati all’evoluzione del percorso come poeta dalla prospettiva cui noi siamo interessati, che è la prospettiva familiare. Partendo dal presupposto che oggi nella tua narrazione siano presenti delle connessioni o siano state operate delle trasformazioni del tuo linguaggio poetico, del lessico familiare proprio della tua famiglia d’origine, cosa pensi sia transitato dalle generazioni
passate nella tua poetica?
R: Un poeta, quando lo è autenticamente (e chi lo è sopravvive creativamente all’azione uniformatrice della scuola), va dietro a una spinta creativa che, consapevolmente o no, lo trascina in altri territori
da quelli usuali, anche linguisticamente parlando, oltre la classe e il ceto, oltre la famiglia. Pur introiettando tutto ciò che ha letto e sentito, il motore trainante è sempre un suo linguaggio innovativo, dominato da una musica sua propria. La poesia non conosce e rifiuta i luoghi comuni, le frasi fatte, i modi correnti (il gergo, il buonismo, il politicamente corretto...), e non conosce censura, perché a contare è la parola necessaria e sufficiente e non può essere che quella. Non è un caso che da sempre si parli per la scrittura dei poeti di ‘licenza poetica’. Il poeta, non solo linguisticamente ma in particolare linguisticamente, è sempre trasgressivo. Di linguisticamente trasgressivi è caratterizzata la poesia di tutti i tempi e di tutti i luoghi e volendosi limitare alla nostra, basti qualche nome: Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi...
D.: Quali aspetti di questo passaggio pensi siano stati più fecondi o di ostacolo alla tua crescita personale e artistica? Ovvero in che modo tale dimensione poetica è stata di aiuto o di stimolo ad una processo di crescita interiore e professionale? Puoi evidenziare alcuni esempi di tale presenza nella tua produzione?
R.: Il problema creativamente è proprio la necessità di liberarsi da tutti gli schemi, gli usi ed abusi della quotidianità, i formulari e il linguaggio acquisito... Il passaggio avviene in modi diversi nelle diverse esperienze: c’è chi nasce libero dai condizionamenti o comunque se ne libera presto, ma è caso raro. Per i più si mette in moto un processo di distacco progressivo, più o meno lungo. Per quel che mi riguarda, non è
stato rapido questo processo di liberazione dall’inevitabile condizione di uniformità dell’educazione familiare e scolastica. L’esercizio della poesia, proprio nell’inseguimento della parola necessaria e sufficiente, è stato fondamentale nella mia crescita interiore e professionale.
D.: Nel dialogo interiore, ‘spirituale’, con le generazioni che ti hanno preceduto (dialogo tra le anime e i viventi, direbbe Vittorio Cigoli), cosa ha rappresentato la dimensione poetica in termini di valore aggiunto?
R.: Il valore aggiunto della poesia, come dicevo, sta nella conquista di una messa a fuoco precisa, senza aloni e senza abbagli. Nella mia esperienza, in questa progressiva messa a fuoco, a contare è stata soprattutto la frequentazione della grande letteratura, poesia o narrativa che fosse, anche è stato il pensiero filosofico, l’opera insomma di grandi scrittori, dove il ‘grandi’ sta a significare gli scrittori capaci di ‘nominare’ la realtà in maniera rivelatrice.
D.: Cosa è transitato, attraverso i tuoi genitori, delle generazioni precedenti e che oggi ritieni sia conservato nella tua narrazione poetica? Quali trasformazioni invece sono state possibili? Puoi evidenziare alcuni esempi nella tua produzione? Che aspetti del famigliare (specifici) pensi/immagini di passare agli altri attraverso la poesia e perché sono importanti per te?
R.: La famiglia è il luogo fondamentale della crescita, ma è anche la ‘prigione’ dai cui confini ed obblighi ciascuno è tenuto a liberarsi. Certo è il luogo della difesa e dell’amore, ma è anche e spesso l’occasione dell’imposizione (di ipocrisie, di presunti valori, di aspettative altrui...). Il principio di contraddizione vale sempre e in ogni caso, anche per la famiglia. Ma naturalmente certi aspetti positivi e perfino straordinari
di dedizione, di testimonianza, sono passati in me e da me, almeno provandoci, alla mia nuova famiglia, ispirandomi soprattutto con i figli alla massima taoista: creare senza possedere, mettere al mondo senza
farci affidamento, far crescere senza dominare e senza dare meta (vedi il mio ultimo libro, specie nel capitolo Morale della favola).
D.: Esplorare il tema del dialogo con il lettore/pubblico, così come noi abbiamo un dialogo con la famiglia (per esempio per noi è importantissimo assimilare e usare il linguaggio della famiglia per usarlo con il significato che ha per quella specifica famiglia)...
R.: Il mio lavoro è diverso dal tuo. È chiaro che tu per metterti in sintonia con qualcuno (minore o giovane che sia) hai bisogno di impadronirti del linguaggio di quella specifica famiglia a cui appartiene colui con il quale ti devi confrontare. Per uno scrittore, è diverso. Forse solo il narratore nella costruzione della sua storia conserva questa esigenza di conoscere il linguaggio della famiglia per raccontare dei suoi personaggi
in un romanzo, ma deve essere capace di mobilità nel passare da una famiglia all’altra descrivendo i suoi protagonisti. Un poeta si libera, come ti dicevo, da certi schematismi, dietro a una necessità assoluta
che lo porta attraverso le parole alla radice delle cose. Un poeta, in ogni
caso, non pensa mai a un pubblico di lettori per le sue poesie. Il poeta scrive per se stesso e l’esercizio della poesia è una pratica esoterica all’inseguimento del se stesso profondo. Ecco perché la poesia (quella con la P maiuscola) ha valenza universale e chi la legge ritrova se stesso.
Paolo Ruffilli ha pubblicato numerosi volumi di poesia, ed è il curatore di edizioni delle Operette morali
di Giacomo Leopardi, della traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, delle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo e di un’antologia di Scrittori garibaldini. Ha tradotto testi di Gibran, Tagore, i
Metafisici inglesi, Mandel’štam e la Regola celeste del Tao. Nel 1995 ha pubblicato, avvalendosi della col-
laborazione di Fulvio Roiter, l’insolito Nuvole, foto e poesie. Autore di romanzi e di racconti, è conosciuto a livello internazionale per i suoi libri di versi tradotti in molte lingue. Nel 2002 ha vinto il premio Laudomia
Bonanni con La gioia e il lutto. Con Camera oscura, del 1992, ha ottenuto il Premio Dessi nel 1993]; con
Le stanze del cielo (2008) è stato omaggiato con il Premio Nazionale Letterario Pisa, e il Premio Nazionale Rhegium Julii. Con Variazioni sul tema nel 2014 e con Le cose del mondo nel 2020 ha ottenuto il Premio Viareggio Giuria. Il romanzo Preparativi per la partenza (2003) è stato finalista al Premio Bergamo. Pre-
mio Bergamo. Ha collaborato alle pagine culturali dei quotidiani tra cui Il Resto del Carlino, Il Giornale, La Repubblica, Il Gazzettino. Per vent’anni ha lavorato per l’editore Garzanti ed è attualmente il direttore della
collana Biblioteca dei Leoni. È stato curatore dell’antologia on-line La Poesia Italiana Contemporanea, dal Primo Novecento a oggi nel sito www.italian-poetry.org insieme con Alberto Bevilacqua, Luciano Erba, Giuliano Gramigna, Alfredo Giuliani, Mario Luzi, Elio Pagliarani, Giovanni Raboni, Edoardo Sanguineti.
A CURA DI CARLO VETERE
"Storie e geografie familiari", n. 23-24 febbraio 2021 (Scione Editore, Roma)
INTERVISTA a Paolo Ruffilli: L' "avventura esistenziale" e la valenza sacrale della parola. La poesia come viaggio tra amore, dolore e morte
Questa intervista a Paolo Ruffilli è la rielaborazione, con le risposte riviste personalmente dal poeta, della conversazione che abbiamo avuto in diretta Facebook nell’ambito della serie “Respiro… incontri di ossigenopoesia”, realizzata dall’Accademia Mondiale della Poesia di Verona, a cura della segretaria generale Laura Troisi, in 15 puntate, ogni settimana dal 13 aprile al 23 luglio 2020, per sopperire al vuoto letterario provocato dal lockdown decretato dal Governo italiano contro il Covid19. L’originale in video si può recuperare su You Tube, come tutte le altre interviste della rassegna.
Si tratta di un’intervista “totale” che evidenzia l’intero percorso poetico di Paolo Ruffilli, ma anche il suo impegno culturale e sociale di intellettuale, scrittore, editore, e traduttore dei grandi poeti delle diverse letterature, oltre a un lavoro di scouting tra le diverse nuove generazioni di poeti.
1) Quando hai scritto la tua prima poesia e quando hai capito che saresti stato un poeta?
La mia prima poesia l’ho scritta in seconda elementare, parlava di una nevicata, ricordo ancora qualche verso. Di qui a “sentirmi” poeta, ne sono passati di anni.
2. C’è stato un poeta (o una poetessa), italiano/a o straniero/a, che ti ha folgorato e che ancora oggi ami più du tutti? Qual è la sua poesia che preferisci?
Sicuramente Giacomo Leopardi, per tante ragioni: per la sua idea di poesia affidata a un verso libero che nella musica intreccia ragione e sentimento, per il suo pensiero poetante, per la sua lucida visione della vita che non rinuncia alle “illusioni”, per il suo sguardo insieme distaccato e coinvolto. E “L’infinito” è la poesia che bene rappresenta quello che mi lega a Leopardi.
3. Esiste una tua poesia in cui ti identifichi come poeta e come uomo? Ci vuoi dire quale?
Non è facile indicare una sola poesia in cui mi pare di identificarmi. Forse quella che in ogni caso mi rappresenta bene si intitola “Tardi”. Eccola:
Quanti deserti ho attraversato…
Mai, per un attimo neppure,
arreso all’evidenza della mia ferita.
Io, partito debole e incerto sui bersagli
senza vera meta e senza una ragione,
capace invece contro la mia attesa
di trarre l’energia dal vuoto e dal dolore
destinato ad imparare tardi e come
analfabeta molti dei segreti dell’amore,
al buio senza previsione e senza meta
diventato con sorpresa (strana, mi dico,
la mia sorte) via via più forte per la vita
avanzando e avvicinandomi alla morte.
4. Hai affrontato nelle tue poesie molti temi: il viaggio ambientale (il tuo ornai famoso “Diario di Normandia”), il cuore, cioè l’eros, l’amore nella convivenza, ma anche passionale, forte, carnale, sensuale, e l’amore tormentato o contrastato, e non poteva mancare anche l’amore romantico; poi, il carcere e i problemi dei detenuti. Ma anche il tema del vuoto sociale, dei contrasti che derivano dal desiderio di sopraffazione nella coppia, nella vita, nella società. Qual è il tema che più ha segnato la tua vita e la tua ricerca? C’è una poesia che lo riassume e che ce lo dimostra pienamente?
Per me, in poesia, qualsiasi argomento è buono. Perciò ho sempre praticato strade diverse, sollecitato da situazioni coinvolgenti anche esterne, ma interiorizzate profondamente. Del resto, nel rapporto tra io e mondo, scattano molteplici agganci e rapporti, in un corpo a corpo che ho sempre vissuto con intensità. A partire dal movimento che ci mette in relazione con la realtà fuori di noi e dall’esercizio di quella libertà che la realtà mette continuamente in forse. Di qui, i vari temi che hai citato: il viaggio come avventura esistenziale, l’amore come sentimento e come carnalità, l’esperienza del vuoto e dell’assenza, il confronto con il dolore e con la morte. Anche in questo caso non è facile individuare una poesia che possa dare testimonianza di tutto quello di cui parlo, ma cito qui i versi sotto il titolo “Sveglio”, se non altro specchio di quello scettico curioso che io sono:
Sveglio
Aspetto sveglio il mondo
nel momento del suo stare più deserto
per spiarlo meglio a cielo aperto
in ogni suo girone di miseria e di splendore
al vento della pura esplorazione
e con l’effetto di imparare, sia pure
nell’errore, i trucchi del mestiere
per mangiare e bere i molti pasti e succhi
che si è offerto di darmi in concessione,
da provare intanto su di me
alternati nel piacere e nel dolore.
5. Tu hai scritto alcuni romanzi, che raccontano storie drammatiche e forse irrisolte. Che cosa ti spinge verso il romanzo e che cosa ci trovi, rispetto alla poesia?
In me vivono entrambi gli stimoli, alla poesia e alla narrazione, e quest’ultima sia nella forma corta del racconto sia nella forma lunga del romanzo. Tutto comincia sempre all’epoca delle scuole elementari. In terza, il maestro quando voleva riposarsi mi chiamava alla cattedra perché intrattenessi i compagni raccontando qualche storia. Inventavo in presa diretta, nello spazio avventuroso di vicende che contemplavano esplorazioni, ricerche, scontri… Insomma, mi ero ritrovato un talento affabulatorio, coltivato attraverso vaste letture di ogni tipo, anche fuori età, in un’infanzia piuttosto libera e non controllata dai genitori. In ogni caso, il mio talento affabulatorio ne contemplava un altro, propriamente musicale relativo alle parole. Nel mio linguaggio, fin da piccolissimo e a partire da quel periodo in cui dopo avere ascoltato si comincia a parlare, la parola ha sempre avuto una valenza musicale. Mi dicono che già a due/tre anni andavo pronunciando a voce alta parole sillabate e legate ad altre parole per il puro gusto della loro musica. Ho sempre continuato e continua ancora, in un innesco incontrollato. A monte, insomma, c’è un’ossessione musicale che dà il via a una composizione che è sempre una partitura musicale, sia che si tratti di un brano di poesia sia che si tratti di una narrazione. Rispetto alla sintesi estrema della poesia, dove il vuoto è decisivo, la narrazione mi consente di far affidamento sul pieno e dunque allargando gli spazi. Però, come dicevo, a decidere per me è sempre la musica. E, nella messa a punto della partitura musicale, per me è decisiva la continua riscrittura. Nella mia scrittura valgono i tempi lunghi, lavoro per anni sia ai versi che alle pagine narrative.
6. Nella tua vita hai fatto e fai anche l‘editore, il traduttore, e anche il talent scout di altri poeti e scrittori. Come concili tutti questi impegni e in quale campo ti senti veramente realizzato? Quali sono le traduzioni che preferisci tra le molte che hai fatto?
Tra i miei maestri c’è anche Ezra Pound, il quale ripeteva sempre che non ci si deve accontentare di pubblicare le proprie cose, ma bisogna anche aiutare a pubblicare le buone cose degli altri. Consiglio che ho seguito e che trasmetto a quanti mi è capitato di scoprire e promuovere. Non potrei fare diversamente, così come non potrei rinunciare ad occuparmi di ciò che scrivono gli altri. In particolare, in questa direzione, è per me coinvolgente al massimo grado certa grande poesia straniera che sento il bisogno di tradurre personalmente, soprattutto là dove certe traduzioni che ho letto non mi soddisfano. Negli anni dell’università ho scoperto di avere una facilità di traduzione perfino in lingue mai studiate, come il tedesco o il russo e perfino il cinese. Là dove c’è un interesse trainante per me scattano risorse inimmaginate e ci lavoro mesi, addirittura anni (come per il Libro delle regole celesti del Tao) e arrivo alla soluzione. Il lavoro del tradurre è per me parte integrante del mio stesso lavoro di scrittura, ma sempre e solo per digestione profonda, non per imitazione. Tutte le traduzioni che ho fatto mi sembrano fondamentali nella mia personale vicenda, da Mandel’štam all’Achmatova, da Pasternak a Kavafis, da Gibran a Tagore, dai metafisici inglesi al Tao.
7. Hai fatto per anni il professore di liceo. Poi ti sei stancato e ti sei dedicato appunto alle varie attività che costellano la tua biografia. La tua esperienza scolastica può darci una valutazione di come funziona o non funziona la scuola come centro di formazione dei nuovi cittadini? La poesia, da questo punto di vista, potrebbe aiutare o è inutile, come spesso viene anche detto? Hai una tua poesia che riguardi questa tematica?
L’esperienza dell’insegnamento è stata importante e coinvolgente e l’insegnamento è fondamentale nella formazione, l’insegnamento frontale, intendo. Le lezioni online diffuse dall’emergenza Covid19 sono solo un palliativo e la loro importanza non è comunque separabile dall’insegnamento in presenza con i suoi aspetti positivi e negativi legati al rapporto tra le persone. Per il semplice motivo che la pratica scolastica è anche la celebrazione di un “mistero”, cosa possibile solo in “corpo vivo”, come a teatro. E fondamentale è la combinazione di energie che si mette in moto per veicolare conoscenze e competenze. La presenza della poesia nella formazione scolastica resta ancora decisamente stimolante, come testimoniano gli stessi allievi, più e meno giovani. Alla scuola elementare, media, superiore, all’università, con la sua grande carica, la poesia soddisfa le esigenze (sogni, inquietudini, dubbi, aspettative) delle diverse età. Per darti un’idea di quello che intendo, posso far ricorso a una poesia dedicata anni fa a mia figlia:
La scuola
“Cos’è?” Mi chiedi incerta. Un’occasione
da navigare a vista, servendosi del naso.
Muovendosi dribblando pesi e noia,
fatiche ed apprensione, volta per volta.
Senza arrivare a farti mai ribelle né servile,
ma umile e gentile sempre in ogni caso.
Lo so, che ti ferisce chi non ti capisce.
Però, se perdi, volgilo in conquista:
prendi ogni ostacolo per molla e
propulsione, imparando a convivere
con il mistero fitto dell’educazione.
8. Molta tua poesia è memoria personale, o comunque memoria umana degli eventi che ti hanno colpito. Qual è l’importanza di alimentare la poesia con la memoria? C’è un tuo testo su questa dimensione?
Come sappiamo ormai anche per via scientifica, solo ciò che muta è destinato a durare. Perciò è impensabile che non cambi anche la memoria. Istintivamente, come sempre gli è capitato nella sua storia, l’uomo è andato via via concretizzando un suo progetto relativamente alla memoria, in quel percorso che a partire dal così detto cervello elettronico è arrivato al computer e continua in ulteriori sperimentazioni. Cos’altro è un computer se non una riserva di memoria? Evidentemente il nostro cervello ha “sentito” la necessità di liberarsi di una parte del suo carico per evolvere. Del resto, lo abbiamo imparato dai nostri computer che caricando troppo la memoria la macchina perde velocità e prontezza. Già al principio del Novecento i creativi con le antenne lunghe avevano capito che qualcosa stava accadendo a proposito della memoria. Contemporaneamente, e senza sapere gli uni degli altri, Einstein elaborava la teoria della relatività definendo il tempo non più come un contenitore ma una delle nostre dimensioni (lo spazio-tempo), Proust andava alla ricerca del tempo perduto scoprendo alla fine che non era perduto perché faceva parte di noi, Freud spiegava attraverso le parole emergenti dal profondo che noi siamo quello che siamo stati e quello che sono stati altri prima di noi. Insomma, la memoria cambia aspetto ai nostri occhi. Non è qualcosa alle nostre spalle che ci costringe a girarci e a guardare indietro, ma è qualcosa dentro di noi e dentro la quale possiamo scendere e salire. La grande poesia ha cambiato intanto prospettiva, ha cessato di essere elegiaca tralasciando l’imperfetto e la nostalgia per qualcosa ormai morto e adottando il presente per nominare qualcosa ancora vivo. Anch’io mi sento in questa prospettiva, non guardo alle mie spalle, ma dentro di me. Alla memoria ho dedicato questa poesia:
La memoria cede, annaspa e caracolla
gonfia di corpi inerti e piena di detriti,
anarchica e impaziente tralascia
quasi tutto e non le importa niente:
resiste, si difende e scarica ogni peso
a fior di pelle, nessuno la costringe
incalza o frena, nessuno la controlla,
perché sennò lei stessa preferisce
spegnersi da sola, tagliarsi i ponti
fino a sprofondare e ad affogarsi da ribelle.
9. Nella tua poesia non manca l’ironia. A cosa serve l’ironia nella poesia? Sono molti i poeti che affrontano i gravi problemi della vita, come la morte, l’abbandono, il dolore, l’insulto e la maleducazione, la miseria, l’emigrazione, o addirittura l’esilio, ma anche la violenza , la prevaricazione, il potere e le sue disfunzioni o aberrazioni. Come si devono trattare questi aspetti tutti seri e gravi per non esser respinti dai lettori?
Una definizione in cui mi riconosco l’ha data di me Goffredo Parise: un anarchico borghese. Del resto, uno dei miei personaggi preferiti è Harry Haller il protagonista del Lupo della steppa di Hesse, una persona alla deriva che resiste al vuoto in cui galleggia vivendo in una casa borghese, perché i “pavimenti più solidi” li ha costruiti la borghesia. E, come dice Harry, non si può non essere ironici in una situazione esistenziale simile. Nella mia poesia, l’ironia si affida a piccoli inserti o a piccole variazioni di tono o a certi dialoghetti con i quali faccio parlare spesso l’io nascosto negli altri, intercalati al tessuto, ancore di salvataggio, tracce affioranti di un flusso carsico, isole riemergenti dal buio, dall’anonimato… Sì, è un gioco di sponda, un effetto di riverberazione. Uno dei miei modelli è il libretto dell’opera buffa, dove appunto in mezzo a descrizioni, commenti, illuminazioni liriche, ci sono anche dialoghetti aerei e frizzanti. Dialoghetti tanto più rivelatori nelle loro battute smozzicate, quanto più apparentemente incoerenti e divaganti. Il libretto d’opera, del resto, è un modello molto sofisticato: realizza allegramente la commistione di generi letterari (il romanzo, la commedia, perfino il saggio). A me, creativamente, piace la mescolanza dei livelli e dei punti di vista in chiave musicale.
Penso sempre di affidarmi alla legge dell’inversamente proporzionale, per cui il grande è attingibile nel piccolo, nel semplice, nel tono sottovoce, smorzato, chiaroscurale del linguaggio, nelle sue sacche interne e mediante il quale soltanto il sublime, a cui non rinuncio, è davvero pronunciabile. La mia visione del sublime, rinvia forse anche ad un diverso strumento per vederlo e osservarlo, una sorta di cannocchiale alla rovescia che riduce, rimpicciolisce. Lo dicono anche i fisici che l’unico modo per l’uomo di trovare l’infinito è di cercarlo nel piccolo. E, nei loro laboratori, cercano l’infinitamente grande nell’infinitamente piccolo. Il segreto, del resto, è lì: in quel vincolo estremo che tiene assieme particelle minime che si attraggono perché si respingono. Spezzare quel vincolo, lo sappiamo, scatena un’energia violentissima. Quanto più contenuta è la compressione, tanto più incontenibile è l’esplosione. Insomma, per dirlo con una battuta taoista, il mondo empirico e quello metafisico sono tutt’uno. È un ossimoro molto stimolante anche per la poesia. E la parola, per quanto possa apparire piccola e povera, ha valenza assolutamente sacrale.
10. Credo che ogni poeta ami tutti i propri libri, avendoli generati. Ma sicuramente ce n’è uno che è il preferito, quello considerato il più importante. In quale tu credi di più? Forse nell’ultima raccolta antologica che hai pubblicato quest’anno Le cose del mondo (Mondadori, 2020)?
Sì, dovendo scegliere, penso all’ultimo libro: Le cose del mondo. Del resto, è un lavoro quarantennale e il filo conduttore è un progetto lontano rimasto sempre vivo. L’idea è legata a una mia necessità: quella di perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la mia esperienza, in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio. La mia è una formazione di linguista, ho avuto un grande maestro, Luigi Heilmann. Ho dato corpo razionale a quella passione per la parola e per il linguaggio di cui parlavo. Nella mia vita, la pronuncia delle parole è fondamentale in senso assoluto come avventura dei nomi.
11. Nella tua poesia non c’è fede. Eppure il tuo interesse per la spiritualità è grande, e anche perfino per una certa mistica. La domanda dell’esistenza: qual è secondo te il senso della vita umana? C’è una poesia che metta in evidenza questo mistero?
Le religioni storiche parlano la lingua del loro tempo. La lingua del nostro tempo è totalmente diversa, dominata dalla ricerca scientifica e dal desiderio di conoscere. Come affidarsi alla fede? Per di più attraverso parole che per noi non hanno granché senso? Il che non esclude affatto l’afflato che chiamiamo spirituale, l’insoddisfazione per la pura consistenza materiale a cui ci condanna proprio il nostro cervello. Uno strumento sofisticato, il nostro cervello, dalle potenzialità inimmaginabili destinate a sorprenderci. In ogni caso con quella sua caratteristica di essere il motore di un istinto profondo che non sappiamo dove peschi per davvero. Di qui, ad esempio, una poesia come questa che si intitola
Natura umana
Ha la natura umana una tendenza:
l’irresistibile bisogno di levarsi
puntando in alto e distaccandosi
dal suolo per riprendere possesso
di qualcosa che le sia stato tolto,
magari come ipotesi di un suo diritto
colto in potenza, o che si aspenbsptticome
di averlo quasi promessa o...;
parte nobile della sua essenza stessa.
12. Il pregio della tua poesia è la leggibilità. Sembra una poesia facile, e invece è piena di pensiero sul mondo, sulla vita, sulle cose che sopravvivono all’uomo. Le avanguardie non fanno per te. Ritieni che siano state inutili? e la linea attuale di poeti sperimentalismi che lavorano sulla lingua da manipolare, ti dicono qualcosa?
Le avanguardie per me sono state importanti. Ho frequentato la poesia sperimentale dal futurismo al Gruppo 63: mi ha insegnato a non prendermi troppo sul serio, a liberarmi da ogni eccesso nei modi e nei toni, a evitare l’inamidatura, a essere più elastico e libero. Ho avuto amici come Alfredo Giuliani, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, che sono stati interlocutori significativi, nella convinzione che ognuno dovesse comunque seguire la propria pista.
13. Io penso che tu abbia una grande qualità: quella di scrivere di cose serie, importanti, impegnative, che richiedono al lettore non consenso, ma responsabilità. Richiami il senso civile della convivenza senza proclami né invocazioni. Ma in tante interviste hai detto che in fondo la tua poesia non tratta la realtà visibile. Eppure non fai altro che scrivere di cose che fanno parte della quotidianità. In che senso il tuo senso malinconico della visione del mondo diventa astrazione per una metafisica dell’esistenza “offesa”, quindi anche realistica?
L’uomo ha avuto tendenza all’astrazione fin da subito, appena comparso sulla terra. È questa la sua forza, ciò che gli ha consentito di arrivare dove è arrivato, senza essere cancellato da quel mostro indifferente che è la Natura. E proprio perché è un animale naturalmente (o innaturalmente, se si preferisce) capace di simboli, diventa artifex e comincia ad impiegare i suoi artifici per difendersi e conservarsi “artificialmente” dentro una natura che lo schiaccia e lo cancella. L’uomo primitivo è già un intellettuale istintivamente e si sforza di ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla. I linguisti lo sanno che l’elaborazione del linguaggio risponde proprio a questa spinta inconscia del dare pronuncia musicale alle “parole magiche” per entrare dentro la realtà e impadronirsene. E il linguaggio, come tutto il resto, nasce proprio dalla formidabile tendenza dell’uomo all’astrazione. Dunque, parlare di progressiva concettualizzazione e intellettualizzazione è parlare di un processo comunque in corso da sempre, coincidente con la “naturale” (o innaturale) evoluzione del nostro cervello, che si è strutturato linguisticamente proprio per far fronte alla situazione e che elaborerà altre soluzioni per continuare a far fronte alle situazioni che cambiano. Ecco, appunto, realtà e astrazione vanno di pari passo. La poesia per me è avventura mentale. Continua ad esserlo. E non si preoccupa di nient’altro che di essere fedele a se stessa. Senza curarsi troppo della “sostanza materiale” dell’esperienza, forse perché oggi ha la coscienza che la materia è energia, anzi energia decaduta. Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole “speculare”, “speculativo”, “specola”, rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Lo sguardo focalizzato e fisso con cui la fotografia duplica la realtà. Io mi sono sempre occupato di fotografia, non come fotografo ma collaborando con i fotografi. La fotografia vive nel malinteso che sia l’immagine oggettiva della realtà, ma invece è una pratica magica, uno dei sogni più antichi dell’uomo, quello di catturare l’attimo fuggente. Per consegnarlo a una superficie che riposa sul vuoto. E, in questa condizione, è una pratica a sua volta di astrazione per andare oltre l’apparenza con cui la realtà si manifesta a noi. La parola “immagine” dovrebbe ricordarci che è composta appunto di “magia” che ci porta dentro (“in”), a scoprire quello che non si vede. Lo sappiamo anche dalla scienza che è molto se non addirittura prevalente ciò che non vediamo.
14. Hai scritto qualcosa sull’emergenza da coronavirus?
Una di quelle poesie che rientrano nel senso di sospetto che ho nei confronti della Natura. Non per niente non ho mai amato la natura così detta incondizionata, preferendo la natura magari contaminata ma popolata di persone. Nell’ottica leopardiana, ben consapevole degli aspetti per noi vitali della natura, ma anche della sua sovrana indifferenza. Eccola:
Terra
Terra che ingoia
tutto quanto è stato:
città nazioni imperi.
Terra stipata
di cadaveri
che ha divorato.
Terra che sputa fuori
erutta spinge
rugosa e tormentata.
Terra sfaldata
che annega
e che sommerge.
Terra che del
disordine e degrado
fa la sua forza.
Terra in travaglio
costruttivo distruttivo
senza fine.
Blog Poesia del "CORRIERE DELLA SERA"
https://poesia.corriere.it/2021/12/13/intervista-a-paolo-ruffilli-l-avventura-esistenziale-e-la-valenza-sacrale-della-parola-la-poesia-come-viaggio-tra-amore-dolore-e-morte/
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